la Repubblica, 12 novembre 2014
La scelta di Juncker. Al presidente della Commissione non resta che collaborare, nell’inchiesta contro il Lussemburgo e battersi, con la stessa efficacia con cui ha sostenuto l’elusione fiscale del suo Paese, perché questa elusione venga definitivamente eradicata dall’Europa
Nel suo discorso di investitura come presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker ha promesso trecento miliardi di investimenti per rilanciare l’economia europea. Ora tutti si chiedono dove andrà a prendere tanti soldi in un’Europa i cui governi da anni stringono la cinghia quasi quanto i loro cittadini. La risposta più semplice, la più giusta anche se la meno realistica, sarebbe quella di chiedere a Juncker di restituire i millequattrocento miliardi di euro che il Lussemburgo, da lui governato per due decenni, ha sottratto ogni anno al fisco degli altri Paesi europei. A tanto, secondo l’inchiesta di un consorzio investigativo americano pubblicata in Italia da L’Espresso, ammonta il danno erariale provocato dalle facilitazioni fiscali che il piccolo granducato ha elargito a centinaia di aziende per attirarne i capitali.Jean-Claude JunckerCON 28mila miliardi a disposizione dei bilanci pubblici europei, non ci sarebbe crisi, non ci sarebbe austerità, e non ci sarebbe neppure bisogno del piano di investimenti di Juncker. È ovviamente semplicistico e sbagliato pensare che l’elusione fiscale made in Luxembourg sia all’origine della crisi di questi anni. Primo perché i soldi che le imprese hanno risparmiato in tasse sono stati investiti altrimenti e sono comunque entrati in circolazione alimentando l’economia. Secondo, perché il Lussemburgo non è certo stato l’unico Paese europeo a praticare il fiscal dumping come arte di governo. Su quelle pratiche l’Irlanda ha creato il proprio decantato miracolo economico, svanito poi in una bolla finanziaria che almeno le banche lussemburghesi ci hanno risparmiato. Ma anche Paesi come la Gran Bretagna, l’Olanda, l’Estonia, Cipro, l’Austria, hanno beneficiato alla grande degli spiragli consentiti dalla totale mancanza di una politica fiscale europea omogenea e coerente.Il problema è che Jean-Claude Juncker è oggi il presidente della Commissione europea, cioè del governo dell’Europa, che dovrebbe darsi come obiettivo prioritario proprio quello di dotare l’Unione di una politica impositiva omogenea, chiudendo ogni spazio all’elusione fiscale. E questo evidentemente pone un problema politico che l’ex premier lussemburghese, convocato oggi davanti al Parlamento europeo, non può far finta di non vedere.L’agenzia americana Bloomberg, con un editoriale insolitamente duro, ha chiesto le dimissioni di Juncker. Può anche darsi che il mondo anglosassone abbia il dente avvelenato nei confronti del nuovo presidente della Commissione, considerato troppo europeista rispetto al predecessore. In fondo, prima Blair e poi Cameron si sono opposti alla sua nomina. Blair, anni fa, con successo. Cameron subendo una sconfitta bruciante che ora potrebbe voler vendicare. È vero anche che gli americani vedono forse con sospetto l’influenza che Juncker potrà avere sui negoziati per il Trattato transatlantico di libero scambio, che Barroso ha condotto fino ad ora da posizioni subordinate. Ma tutto questo non toglie credibilità alla rivelazioni dell’inchiesta giornalistica sul Granducato come paradiso fiscale e sul ruolo che l’ex premier lussemburghese ha avuto nella vicenda.Jean-Claude Juncker non è un presidente della Commissione come gli altri. È il primo che sia stato nominato dal Parlamento in base al risultato delle elezioni europee, in modo trasparente e indipendente dalla volontà dei capi di governo. Ha dunque una legittimazione democratica superiore a quella dei suoi predecessori. Tutto questo, però, aumenta la sua responsabilità, la sua accountability, come dicono gli anglosassoni. Non verso i governi che lo hanno formalmente designato, ma verso i cittadini europei che lo hanno eletto. Ora egli ha il dovere di spiegare a questi cittadini perché essi vengono chiamati a pagare più tasse per compensare quelle che il Lussemburgo, da lui governato, ha permesso alle aziende italiane, francesi, tedesche, svedesi, di eludere.Sia chiaro: personalmente Juncker non è accusato di nessuna malversazione. A quanto si sa, neppure un centesimo del flusso di miliardi che egli ha dirottato verso il Lussemburgo è entrato nelle sue tasche. Non c’è dubbio che, come primo ministro, egli abbia agito nell’interesse del suo Paese e lo abbia fatto alla luce del sole, approfittando delle scappatoie formali esistenti nelle leggi internazionali, senza violare queste leggi.Tuttavia, soprattutto con questa crisi e con i sacrifici che essa comporta per gli stati e per i cittadini d’Europa, certi comportamenti possono essere legittimi e risultare però inaccettabili, e oltraggiosi per la sensibilità dell’opinione pubblica. Come leader eletto da 500 milioni di europei, Juncker non può ignorare questa verità e trincerarsi dietro un silenzio oltraggiato, come ha fatto fino ad ora. Egli deve venire davanti al Parlamento e deve spiegarsi. E poiché non potrà giustificare retroattivamente il suo operato se non sotto un profilo legale, deve prendere due solenni impegni politici. Il primo è quello di non interferire, e anzi di collaborare, nell’inchiesta che la Commissione ha già aperto contro il Lussemburgo per le sue pratiche fiscali. Il secondo è quello di battersi, con la stessa efficacia con cui ha sostenuto l’elusione fiscale del suo Paese, perché questa elusione venga definitivamente eradicata dall’Europa che ora lui è chiamato a governare. Solo a queste condizioni egli potrebbe sottrarsi al dovere, morale e politico, di dare le dimissioni.