Corriere della Sera, 12 novembre 2014
La questione della Libia e dell’embargo sul petrolio potrebbe fermare le milizie
E se un giorno ci svegliassimo con i tagliagole dell’Isis davanti alla porta di casa che i flussi migratori dalla Libia ci costringono a tenere socchiusa?
Non è tempo di allarmismi, ma di individuare le minacce sì. E consiste proprio in questo la priorità libica che tutti hanno genericamente indicato al nuovo ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, mentre la piovra jihadista dalla Siria e dall’Iraq si va estendendo fin vicino a noi, colpisce in Algeria e proietta via web la sua forza di attrazione per giovani occidentali esaltati o in crisi di identità.
Non staremo a ricordare qui il biglietto da visita del disastro libico: due governi e due parlamenti che si delegittimano a vicenda, milizie armate che si spartiscono territorio e aeroporti, tentazioni separatiste, lotte feroci sui proventi petroliferi, organizzazioni criminali che dopo torture e stupri provvedono a «incanalare» disgraziati venuti da ogni dove verso le coste italiane. Nei ristretti limiti del possibile, abbiamo fatto bene. La nostra ambasciata a Tripoli è l’unica delle «grandi» rimasta aperta. L’Eni continua a operare, seppure tra mille difficoltà. Stiamo addestrando a Caserta militari di un futuribile esercito libico. Proviamo a mediare. Soprattutto dobbiamo essere orgogliosi delle centomila vite salvate da Mare Nostrum, mentre a Londra e altrove i rigoristi anti-immigrazione provano a mettere sotto accusa i nostri «eccessi umanitari» ora che il testimone passa all’operazione europea Triton. Ma sappiamo che tutto questo non basta. In Libia il rappresentante dell’Onu Bernardino Leon (si sperava in un personalità di più alto profilo) annaspa tra schieramenti cangianti che cercano soltanto l’altrui distruzione. L’ex generale Haftar arrivato per battere gli islamisti è diventato una milizia in più. Nessuno in Occidente ha voglia di avventurarsi in una nuova impresa militare, e soltanto la Francia presidia il Sud dalle sue posizioni nel Sahel. Per applicare eventuali sanzioni, poi, tra città, parti di città, tribù e milizie servirebbe un esercito di ragionieri. E intanto? E intanto gruppi legati all’Isis stabiliscono alleanze con settori dell’arco islamista «Alba libica», si infiltrano in Ansar al Sharia per poi prenderne il posto come hanno imparato a fare in Siria, si installano nella roccaforte islamista di Derna, sono probabilmente all’origine delle notizie di decapitazioni che giungono dalla Cirenaica, preparano, insomma, una offensiva strisciante che porti a un Califfato mediterraneo.
Talvolta le priorità, come quelle che sono state recapitate a Gentiloni ma riguardano in realtà tutto il governo, somigliano alle mission impossible. Fino a quando non si trova un modo per affrontarle, convincendo tutti che la Libia non è più soltanto un caos, è un caos esplosivo e contagioso per l’Europa tutta del quale l’Italia rischia di subire il primo urto. Il problema è ora di adeguare la risposta alla minaccia, partendo da una realtà che tutti sin qui hanno considerato ingestibile. Ma è davvero ingestibile, la Libia? O si tratta piuttosto di mettere sul tavolo una volontà politica collettiva che fino ad oggi (eccola, la vera priorità italiana, farla nascere) non si è manifestata? Sulla carta qualche ipotesi esiste, anche se nessuna è di facile realizzazione. È in corso un tentativo di plurimediazioni incrociate che dovrebbero spianare la via alla presenza in Libia di una forza di pace sotto bandiera Onu. Arduo, ma soprattutto di improbabile efficacia. Alcuni sponsorizzano azioni militari mirate per «punire» questo o quello (aerei degli Emirati lo hanno già fatto, come gli americani e i francesi). Risultati? Estremamente scarsi e incapaci di arrestare la guerra per bande. A ben vedere queste due opzioni andrebbero benissimo all’Isis e alle ali più radicali degli islamisti impegnate a far propri i loro «insegnamenti», perché le forze di pace hanno per loro natura le maglie larghe e le punture di spillo di militari stranieri legittimano la vendetta nazionalista.
Ma esiste una terza possibilità. La Libia, anche oggi, vive delle sue esportazioni di petrolio e di gas. È quella la «cassa» attorno alla quale ci si massacra, e anche l’Isis di certo non la trascura. Un embargo energetico della Comunità internazionale potrebbe costringere le milizie alla ragione, per sopravvivere. I danni sarebbero gravi soprattutto per l’Eni che più di tutti ha investito in Libia, e dunque per l’Italia che dovrebbe trovare fonti sostitutive scomode (l’Algeria? ) sempre che non precipiti la situazione con la Russia. E beninteso servirebbe un consenso generale, anche della Cina che va a caccia di idrocarburi in Africa, anche di quel Cremlino che rimprovera agli occidentali (con qualche ragione) il disastro odierno. Ma la vera speranza sarebbe di non dover passare ai fatti, di esprimere un avvertimento credibile perché unitario toccando così le corde più sensibili dei libici, islamisti compresi (e allora una forza di pace potrebbe svolgere un ruolo).
Si può arrivare a un consenso sulla Libia, mentre altrove in mondo sembra andare in pezzi? Di certo si deve tentare, e questa è per l’Italia, senza dubbio, una priorità.