Corriere della Sera, 12 novembre 2014
Ecco come una legge, per dimezzare i tempi della giustizia, può favorire la corruzione. La nuova norma prevede che, per fare più in fretta, le parti di una causa civile possano chiedere congiuntamente di uscirne e trasferire la propria causa davanti a un arbitro. Che però non è un pubblico ufficiale ed è corrompibile
Può il mancato raccordo normativo, tra una modifica del 2006 in tema di arbitrati e un decreto legge del 2014 sull’arretrato della giustizia civile, rischiare di creare spazi di corruzione imprevisti e immuni?
Il dubbio non pare peregrino ora che in Gazzetta Ufficiale è stato pubblicato il decreto sulla giustizia civile, varato dal governo il 29 agosto e convertito in legge dal Parlamento il 6 novembre, che all’articolo 1 reca la misura ritenuta più qualificante perché destinata, a detta del premier Renzi e del ministro della Giustizia Orlando, ad «assicurare» (insieme alla negoziazione assistita dagli avvocati) «il dimezzamento dell’arretrato» di 5,2 milioni di cause.
La norma prevede che, eccetto per i diritti indisponibili e la materia di lavoro-previdenza-assistenza sociale, le parti di una causa civile pendente o in Tribunale o in Appello possano, se non vogliono stare ad aspettare i tempi del circuito giurisdizionale, chiedere congiuntamente di uscirne e trasferire la propria causa davanti a un arbitro (se il valore è fino a 100.000 euro) o a tre arbitri (se è superiore) nominati dal presidente dell’Ordine degli Avvocati: e il lodo degli arbitri, individuati tra gli avvocati disponibili e iscritti all’Albo da 3 anni, avrà i medesimi effetti di una sentenza.
Funzionerà il subappalto ai privati? Solo l’esperienza lo dirà, pur se è dubbio che chi sa di avere torto e punta solo a perdere tempo, o chi ha già avuto una sentenza favorevole in primo grado, si accordi con la controparte nel rimettere la causa agli arbitri, anche perché dovrà retribuirli (in media tra i 600-800 e i 4.500-5.000 euro di tariffa a seconda degli scaglioni di valore) oltre a dover già pagare la parcella del proprio difensore e il contributo unificato allo Stato a inizio causa. Ma c’è di più. Se l’identità di natura tra lodo arbitrale e sentenza (in una legge che sospinge i cittadini verso questa giustizia alternativa) potrebbe far propendere per una analogia tra giudice e arbitro sotto la veste di pubblico ufficiale, a tenore delle norme non è proprio così.
Chi per vincere una causa civile paghi una tangente a un giudice fa scattare per entrambi l’accusa di corruzione in atti giudiziari, il cui presupposto è che il magistrato è appunto un pubblico ufficiale. Ma l’arbitro non lo è, da quando il decreto legislativo n. 40 del 2 febbraio 2006 ha modificato l’articolo 813 del codice di procedura civile, stabilendo al secondo comma che «agli arbitri non compete la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio». Nel gennaio 2013, ad esempio, la Cassazione ha ribadito che a maggior ragione nemmeno lo è il consulente tecnico d’ufficio nominato in un arbitrato, «in quanto egli esplica funzione ausiliaria in relazione ad un istituto (l’arbitrato) di natura privatistica, ed a favore di soggetti (gli arbitri) che non sono pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio». E se già era un problema fino ad oggi, quando gli arbitrati al massimo sono stati 743 l’anno in tutta Italia, tanto più può diventarlo ora che questa zona di «immunità» rischia di ombreggiare potenzialmente metà (auspica il governo) dell’arretrato civile.
Il risultato pratico, infatti, è che corrompere l’arbitro di una causa civile parrebbe condotta non più perseguibile come reato né di «corruzione in atti giudiziari» né di «traffico di influenza», giacché entrambi presuppongono la sua qualifica di pubblico ufficiale. Corrompere un arbitro neanche sarebbe «corruzione tra privati», perché questo reato può essere imputato solo ad amministratori e dirigenti di società. Non «falso in perizia», perché l’arbitro non è un perito o un traduttore. E nemmeno «truffa processuale», perché «la giurisprudenza di Cassazione – come riepilogato dalla Suprema Corte nel 2008 a motivo dell’assenza di un atto di disponibilità patrimoniale come elemento costitutivo del reato – si è più volte espressa nel senso di ritenere esclusa la configurabilità della truffa processuale non solo nell’ambito di un processo civile ma anche in un procedimento arbitrale».
L’impasse potrebbe disorientare meno soltanto a patto che si esplicitasse una opzione culturale di fondo, e si sostenesse dunque che, siccome saranno le due parti in causa a rinunciare volontariamente alla giurisdizione statale, saranno affari loro le potenziali minori garanzie offerte dall’arbitro privato al quale si affideranno per inseguire decisioni più rapide.