la Repubblica, 12 novembre 2014
Helmut Kohl tira le orecchie a Gerhard Schröder per la questione greca, critica i leader europei «che avrebbero potuto essere più intelligenti» sulla crisi ucraina e parla di un’Europa alla deriva. Lo fa in un libro e in quest’intervista
Alla bella età di 84 anni, Helmut Kohl è tornato di attualità. Non solo perché ricorre il venticinquesimo anniversario della caduta del Muro, che aprì la strada alla riunificazione tedesca di cui l’ex cancelliere fu uno dei protagonisti. L’uomo che Bill Clinton definì «lo statista europeo di maggior spicco dalla fine della seconda guerra mondiale» ha appena presentato un libro che lancia un grido di allarme per la deriva dell’Europa. Nelle sue memorie dà una tirata d’orecchie al suo successore, il socialdemocratico Gerhard Schröder, per aver ammesso la Grecia nell’euro prima che fosse pronta e per aver indebolito l’Unione europea violando il Patto di stabilità. Critica anche, senza citarli esplicitamente, gli attuali leader europei, che avrebbero potuto essere «più intelligenti» nella gestione del rapporto con la Russia sulla crisi ucraina. Kohl si sente anche tradito dalla recente pubblicazione del libro in cui un suo vecchio confidente ha usato 630 ore di conversazioni registrate nel 2001 e 2002 per rendere pubblici, fra le altre cose, certi suoi commenti poco gentili sulla cancelliera Angela Merkel.Costretto su una sedia a rotelle e con grandi difficoltà a parlare dopo l’emorragia cerebrale che lo ha colpito nel 2008, Kohl ha accettato di rispondere alle domande de El País per posta elettronica.Nel libro di memorie parla di quella «brutta parola, l’eurosclerosi», utilizzata all’inizio del suo mandato come cancelliere, nel 1982.Oggi secondo lei il progetto europeo è immerso in questa «brutta eurosclerosi»? «No, perché sono due situazioni storiche diverse. L’Europa ha fatto molti passi avanti rispetto all’inizio degli anni 80. Con l’introduzione dell’euro, nel 1999, l’integrazione europea è diventata irreversibile. Tuttavia, vedo un certo affaticamento e una mancanza di coscienza dell’importanza di un’Europa unita per tutti. Mi preoccupa vedere lo scoraggiamento con cui si discute del progetto europeo. E in questo senso non escludo nessun Paese. Come all’inizio del mio mandato, ci troviamo a un bivio e dobbiamo imboccare con coraggio e decisione una nuova via verso il futuro». Lei dice che al momento della caduta del Muro nessuno poteva essere sicuro che le due Germanie si sarebbero riunificate e parla dell’indispensabile combinazione «di coraggio e intelligenza» che si ebbe allora. Quali furono le decisioni più importanti?«Furono molte le decisioni che bisognava prendere quasi quotidianamente in quei giorni, settimane e mesi di incertezza. Senza dubbio è stato importante il fatto che Mikhail Gorbaciov avesse dato ordine ai carri armati sovietici di rimanere nelle caserme. Un’altra decisione importante fu il mio piano in dieci punti, che presentai al Bundestag alla fine di novembre del 1989, tre settimane dopo la caduta del Muro. In quel piano affermai con chiarezza il mio obiettivo politico, di arrivare a realizzare la riunificazione del Paese. In questo modo impedii che le trattative si concentrassero su soluzioni che implicavano l’esistenza di due Stati tedeschi, soluzioni che suscitavano simpatie sia in Europa che nel mio stesso Paese. Era necessario anche che la Germania, parallelamente alla riunificazione, affermasse con chiarezza il suo appoggio al processo di unificazione europea, con il sostegno all’introduzione della moneta unica. Un altro colpo di fortuna fu che George Bush non ci fece mai mancare il suo sostegno. La conditio sine qua non per appoggiare la riunificazione fu la determinazione della Germania – e mia personale – di mantenere nella Nato il Paese riunificato».In che momento si rese conto che nessuno avrebbe più potuto fermare la riunificazione?«Il 19 dicembre del 1989. Sei settimane dopo la caduta del Muro andai a Dresda per incontrarmi con Hans Modrow, il premier della Ddr. La folla gigantesca che mi accolse all’aeroporto e lungo la strada che portava in città per me fu il segnale che i tedeschi dell’Est volevano l’unità, e la volevano in fretta. In quel momento capii chiaramente che la Germania sarebbe tornata a essere un unico Paese molto prima di quanto io stesso fino a quel momento avessi immaginato».Lei che ha dedicato la sua vita politica alla costruzione dell’Europa, che cosa pensa quando sente parlare della possibilità di un’indipendenza della Catalogna?«Il dibattito sulla Catalogna è una questione interna su cui non mi voglio pronunciare. Ma c’è una cosa che mi piacerebbe sottolineare. L’unità dell’Europa non è un’ossessione di alcune persone o alcuni Paesi a scapito di altri. Un’Europa unita è la lezione della variegata e dolorosa storia del nostro continente. Non possiamo mai dimenticare che non esiste alternativa. L’Europa è una questione di guerra e di pace. La pace nella libertà è la condizione preliminare per tutto il resto: la democrazia, i diritti umani, lo Stato di diritto, la stabilità sociale e la prosperità. E questo vale ancora di più nel mondo multipolare che è seguito alla fine della guerra fredda. Le sfide a cui dobbiamo far fronte sono cambiate radicalmente da allora. Un’Europa unita non è meno importante di prima, al contrario. Sono consapevole che molte volte non è facile. Ma non è l’Europa a essere responsabile delle riforme che bisogna fare, sono riforme che esige un mondo in costante cambiamento. E non c’è altra strada. L’Ue può aiutare certi Stati membri ad aiutarsi da soli, ma ogni Paese ha la responsabilità di fare i compiti. Mi creda: ho sperimentato tante cose in vita mia, buone e cattive. Ho dovuto lottare molto. E mi attengo a una solida convinzione: un’Europa unita è una questione di sopravvivenza, per tutti noi. L’Europa è il nostro destino. La nostra meta dev’essere un’Europa unita nella diversità, in cui gli Stati membri, le regioni e cittadini possano incontrarsi di nuovo. È per questo che vogliamo lottare insieme. C’è molto in gioco. Si tratta del nostro futuro».
Traduzione di Fabio Galimberti © El Pais