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 2014  novembre 12 Mercoledì calendario

Il nuovo Italicum, l’intervista a Capelli e gli incontri tra Renzi e il Cav.

Corriere della Sera
Il numero magico dell’accordo di maggioranza, il 3% della soglia d’accesso in Parlamento, fa sognare i piccoli della coalizione (dal Ncd al Psi) e dell’opposizione (da Sel a Fratelli d’Italia). Ma anche la data del 2018, ribadita come scadenza naturale della legislatura, galvanizza le forze minori che hanno sottoscritto il patto di Palazzo Chigi (oltre a Pd, Ncd e Psi ci sono Scelta civica, Per l’Italia, Centro democratico e Gruppo autonomie). La diminuzione dei collegi (non più 120 ma un numero compreso tra 75 e 100) non scontenta più di tanto FI e M5S che, viste le quotazioni attuali, potrebbero far eleggere un esercito di capilista nominati dai rispettivi leader. Solo in un Pd vincente, che incasserebbe il premio di maggioranza per il primo partito (340 deputati), si scatenerebbe la guerra delle preferenze tra i secondi e i terzi piazzati nei singoli collegi. 
Road map e tempi 
Il documento di 34 righe, articolato in 4 punti, costituisce una road map per la legislatura. L’orizzonte temporale (punto 1) è «unicamente quello della scadenza naturale» del 2018 perché «votare prima sarebbe un errore e una sconfitta inaccettabile per tutti». Eppure, la legge elettorale (l’Italicum già passato alla Camera il 12 marzo) dovrà essere approvata «entro dicembre 2014 al Senato e entro febbraio alla Camera». 
Premio di maggioranza
Il testo passato alla Camera frutto del patto del Nazareno (Pd-FI) cambia passo. Si alza la soglia di accesso al premio di maggioranza al primo turno (dal 37% al 40%) ma la modifica fondamentale riguarda il «quantum» e il destinatario del premio: che «assegnerà 340 deputati alla lista vincitrice» mentre, in origine, il patto Renzi-Berlusconi prevedeva che il premio «fino a un massimo di 340 deputati» andava alla «coalizione o alla lista vincente che supera il 37%». 
Capilista e preferenze 
Diminuendo il numero dei collegi (non più 120, oscilleranno tra i 100 e i 75) si asciuga in parte il potere dei segretari di partito che mirano a piazzare i fedelissimi sulle poltrone blindate dei capilista. Con 120 collegi, i posti predeterminati per i tre grandi partiti (Pd, M5S, FI) sono potenzialmente 120. Con soli 75 collegi, aumenta dunque il numero dei seggi da assegnare con le preferenze che però riguarderebbero soprattutto il Pd e il M5S. Mentre in FI (nell’ipotesi che si fermi al 15%, ovvero ottenga circa 66 deputati) non ci sarebbe spazio per candidature non convalidate da Palazzo Grazioli. 
Paradossalmente, anche il Ncd di Alfano, che ha incassato pure 10 pluricandidature al posto di 8, eleggerà un numero maggiore di deputati con le preferenze. Se Alfano, per esempio, si «pluricandida» capolista in 10 collegi, alla fine dovrà optare per uno solo posto liberando così 9 seggi per i secondi piazzati (cioè i primi per preferenze). 
Tutto questo, però, potrebbe fare a cazzotti con due sentenze della Corte costituzionale: la 203/1975 e la 1/2014 (che ha bocciato il Porcellum) in cui è scritto che «la piena libertà dell’elettore sarebbe garantita attraverso il voto di preferenza» al di là delle liste, anche parzialmente blindate dai partiti. E infatti, negli uffici della I commissione del Senato, convocata oggi per votare il calendario dell’Italicum, c’è stata grande attività di consultazione delle sentenze della Corte alla presenza del presidente Anna Finocchiaro e del senatore Roberto Calderoli. 
Sbarramento
Alla soglia di accesso per i piccoli partiti abbassata dall’8 al 3% il documento dedica due righe appena: così «saranno evitati effetti distorsivi nella assegnazione dei seggi a ciascun partito». Con la soglia all’8%, si rischia infatti di tagliare fuori dal Parlamento un quarto della forza elettorale minando il principio di rappresentanza. 
Riforme costituzionali
I punti 3 e 4 del documento stabiliscono infine i tempi della riforma costituzionale del Senato (in Aula alla Camera entro il 10 dicembre e approvazione entro gennaio 2015 per poi procedere alla nuova lettura a Palazzo Madama) e del Jobs act (le nuove regole sul lavoro dovranno entrare in vigore il 1° gennaio insieme agli effetti della legge di Stabilità). La tempistica della riforma costituzionale (più lenta della legge elettorale) non consentirebbe però di applicare al nuovo Italicum il «sindacato preventivo di costituzionalità» (proposto da Andrea Giorgis del Pd) per evitare a monte ogni problema con la Consulta. A meno che una norma transitoria riesca a capovolgere la frittata. 
Dino Martirano
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la Repubblica,
«Un peone al vertice: può fare questo titolo».Capelli, deputato del Centro democratico, c’era anche lei a palazzo Chigi?«Sì, non ci avevo mai messo piede. Bellissima la biblioteca, anche se piena di libri dei giorni nostri, pochi quelli datati».L’hanno fatta parlare?«Sono intervenuto durante la stipula del documento, ma non sono stato determinante, va detto».Renzi vituperava i vertici di maggioranza, ora li fa pure lui.«Era pienamente a suo agio. A un certo punto ha detto di sentirsi accerchiato da democristiani».Non era vero?«Su venti partecipanti almeno dieci erano ex dc, Guerini, Renzi, Alfano, Tabacci, Cesa, Pisicchio, Dellai, io stesso, ché ho iniziato da consigliere comunale della Dc. Che scuola!».Era compiaciuto il premier, quando l’ha detto?«No, gioviale. Del resto il tavolo era moltooo doroteo».In che senso?«Da come si parlava, dalla ricerca delle soluzioni».Pensa che seguiranno altri tavoli?«Questo era il primo in otto mesi. Non so quanto voluto o quanto necessitato».Cosa intende dire?«Un vertice necessitato è per mettere pressione all’avversario».Invece avete steso un documento.«E quindi era voluto».In quanti eravate?«Una ventina».C’è stato un rinfresco?«Nemmeno un panino. Solo acqua».Come ai tempi dell’Unione, la coalizione che sosteneva Prodi?«No, sono due situazioni incomparabili. Piuttosto, dei nostri sei deputati del Centro democratico tre sono sull’uscio, pronti a bussare al partito di Renzi. Io e Tabacci invece rimaniamo fedeli ai nostri ideali».Il suo partito è rimasto soddisfatto?«La politica è compromesso, come la vita. Direi che abbiamo felicemente concluso un accordo».Felicemente?«Parola grossa, vero? La cancelli. Meglio accordo soddisfacente. Anzi no, accordo ragionevole...».
Concetto Vecchio
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la Repubblica,
corso del 2014 il presidente Renzi e Silvio Berlusconi si sono già visti sette volte. E anche se l’incontro di oggi sarebbe l’ottavo, conoscendo un po’ i due soggetti nulla vieta di pensare che qualche appuntamento sia sfuggito alla pubblica opinione – il brivido clandestino essendo privilegio degli innamorati, come dice D’Alema.Conviene comunque attenersi all’ufficialità. Per cui il primo abboccamento, conclusosi all’insegna della «profonda sintonia», avvenne il 18 gennaio al Nazareno con gran spolvero di dettagli, uno dei quali ambientava il colloquio fra le due ristrettissime delegazioni sotto un poster raffigurante Che Guevara che giocava a golf.Ancorché misterioso nei suoi termini e nei suoi sviluppi, il patto sulla legge elettorale venne poi accompagnato da singolari apprezzamenti dei protagonisti, fra calcio e devozione. «Vi è piaciuto il cucchiaio?» s’inorgoglì dunque Renzi evocando i gol di Totti; mentre all’house-organ del berlusconismo, il settimanale «Chi», parve opportuno segnalare che l’auto del Cavaliere era entrata nella sede Pd dal lato di una chiesa, Santa Maria in Via, nota per detenere una sacra immagine della Vergine particolarmente miracolosa.E adesso non è per mancare di rispetto alla pretesa Madonnina dell’Italicum, ma dopo il secondo incontro, 19 febbraio, alla Camera, l’elemento sacro decisamente cedeva al profano, e oltre, se è vero che per scaldare l’atmosfera – cosa per lui fondamentale – Berlusconi s’era messo a raccontare le sue rinomate conquiste femminili e giovanili, con nomi e cognomi, fino a scandalizzare Delrio.Ragion per cui, conclusosi il colloquio pure in quel caso finalizzato alle più indecifrabili e soporifere articolazioni d’ingegneria elettoralistica, il giovane premier aveva potuto riconoscere a proposito del suo anziano interlocutore: «È ancora il numero uno, in gran forma, un cazzaro insuperabile».Spesso e volentieri il potere vive (anche) di queste cose: otto incontri, e ben tre dalla fine dell’estate, dicono molto, ma nascondono quasi tutto. Per forza di cose e di orari – non se ne abbiano a male i retroscenisti – non di rado i contenuti di queste riunioni di vertice restano avvolti nel prevedibile e nel generico.Sui quotidiani del giorno dopo lo schema grosso modo si ripete. Da fonte berlusconiana si intuisce che il Cavaliere, ai servizi sociali ma pur sempre uno statista, dà al premier consigli di politica estera, Ucraina, Siria, Libia, addirittura. Da parte renziana s’indovina regolarmente una gran fretta e un’immensa determinazione perché lui non vuole perdere tempo. Così sono sempre contenti entrambi, i due massimi comunicatori.E però. La cosa incredibile, in una civiltà che come l’odierna è fondata sull’immagine, è che di tutti questi ripetuti e frequentissimi incontri non s’è mai vista una foto, che sia una. Non solo, ma al termine di una sommaria per quanto diligente indagine iconografica ci si sente autorizzati a concludere – cosa obiettivamente significativa nella sua bizzarria – che nella più diffusa abbondanza di archivi e immagini on line non esistono proprio foto di Berlusconi e Renzi insieme. Nemmeno in passato, né allo stadio, né in qualche cerimonia, a teatro, in Parlamento, fuori Italia, a messa, per strada, per sbaglio, niente.Così s’è venuto a sapere che il 14 aprile Silvione s’è precipitato a Palazzo Chigi lasciando a bocca asciutta 200 imprenditori che avevano pagato mille bombi per mangiare con lui a villa Gernetto; che il 3 luglio Renzi l’ha accolto a colazione nel suo appartamento per ben due ore; che il 6 agosto gli ha fatto fare un bel giro per gli uffici dopo averlo preso sottobraccio come un buon figliolo; che il 17 settembre il Cavaliere ha rassicurato gli onorevoli renziani Guerini e Lotti, milanisti convinti, sul suo ruolo di presidente; e che invece il 5 novembre niente Milan, niente piccante auto-gossip e niente barzellette, che pure naturalmente le altre volte sono risuonate.Frattanto l’Italicum tentenna, il Job act pencola, i conti non tornano, la corsa per il Quirinale è incerta. Ma in questa mancata, anzi negata trasparenza Berlusconi e Renzi sono veramente e soprattutto d’accordo. Si direbbe il patto dell’invisibile e del non-visto. Curioso, no?
Filippo Ceccarelli