la Repubblica, 12 novembre 2014
Déjà vu. Jeb, il terzo Bush alla Casa Bianca? Nel 2016 probabilmente se la contenderà con la Clinton. Ma se non ce la dovesse fare, i fan della dinastia presidenziale possono stare tranquilli: c’è sempre il figlio trentottenne, un George anche lui ma con la P
Depressa nella delusione del “troppo nuovo” Obama, riaffiora in America la nostalgia della marmotta, la voglia di ricominciare dal vecchio, nella prospettiva di un duello politico fra dinastie collaudate e già viste: i Bush e i Clinton.Il ritorno dei clan che dal 1988, dall’elezione di George H. Bush alla Casa Bianca poi scalzato da Bill Clinton, dominano direttamente o indirettamente la politica nazionale è la testimonianza più malinconica del generale fallimento di una classe dirigente che si attorciglia attorno a se stessa, fra scatti di qualunquismo ruggente alla “Tea Party” e ripiegamenti sul logoro mandarinato alla Mc-Cain o alla Romney. Dopo il grande balzo in avanti tentato dai democratici con Barack Obama a spese di Hillary sei anni or sono, il terrore di un’altra avventura spinge a guardare a quella lisa, ma rassicurante “coperta di Linus” incarnata dalla ex First Lady e dall’ex First Brother, il fratello minore di George W Bush. È stato proprio il fratellone, “Dubya”, il primogenito oggi 68enne di Barbara e George H., a lanciare con forza il nome del governatore della Florida durante la grottesca elezione del 2000 che per 550 voti lo proiettò magicamente alla Casa Bianca, e a dichiarare possibile e desiderabile la candidatura. Uscendo dal silenzio e dall’atelier a Dallas, dove trascorre una quieta vecchiaia dipingendo cagnolini e ritratti amatoriali dei famosi incontrati nella propria vita, George W. ha dato a Jeb, all’anagrafe John Ellis, la propria investitura. «Farò tutto quello che vorrà da me, pubblicamente o dietro le quinte, per aiutarlo nella corsa alla Casa Bianca, se lo vorrà», perché sarebbe «un grande presidente», un uomo dotato di «fede in Dio, amore per la famiglia e soprattutto di quell’ottimismo del quale la nazione ha bisogno».Che il sostegno pubblico di un ex presidente non rimpianto, e costretto all’umiliazione dell’ultima Convention repubblicana di due anni or sono che neppure gli concesse un invito a parlare dal podio, possa essere il motore o al contrario la zavorra per il fratellino sessantunenne, resta una questione aperta per i Repubblicani. Hanno stravinto le elezioni politiche in questo novembre, ma senza un chiaro favorito, un “leader” come vuole oggi la politica, per la battaglia che conta, quella presidenziale, e sono ben coscienti di avere vinto grazie alla diserzione in massa dell’elettorato, astenuto per il 64%. Il terzo Bush in appena 25 anni è una tentazione, soprattutto perché, come già mamma Barbara e papà George (H) sapevano bene, è Jeb, e non George, il più sveglio e preparato dei loro rampolli. Ma con quel nome, e con quella storia di disastri strategici ed economici, un Bush sarebbe anche il perfetto drappo rosso da agitare davanti agli occhi velati dei democratici accidiosi e soprattutto davanti agli occhiali di Hillary, che l’ex segretario di Stato deve indossare da quando cadde in casa subendo un trauma cranico.Per questo, per l’assist che un Bush 3.0 offrirebbe a una Clinton 2.0 aiutandola a far dimenticare gli otto anni di Obama e a riportare l’orologio a cucù della politica Usa al passato remoto, Jeb non ha ancora deciso. «La sua candidatura è un toss up», ammette il fratellone Dubya, è un “testa o croce” che potrebbe decidere al 50/50 per un sì o per un no. Il suo percorso verso la nomination nell’estate del 2016 sarebbe il consueto sentiero minato sul quale i concorrenti troppo sicuri di sé spesso saltano, come accadde proprio a Hillary, caduta nella trappola tesa dall’outsider Obama sette anni or sono. La potenza della dinastia, la familiarità con quel nome, garantiscono numeri altissimi nei sondaggi, ma non necessariamente quei pochi voti che si esprimono nella Primarie o in quei “consigli delle tribù” chiamati Caucus.A differenza della inaffondabile signora, che non avrà avversari seri nella galoppata verso l’investitura del partito – ma soltanto vittime sacrificali come la senatrice del Massachusetts Liz Warren che la insidierà da sinistra tanto per fare sport – e che potrà vantare almeno, dietro l’usura del nome, la novità di essere donna, le destre, gli irriducibili, i fanatici dentro il GOP, il Grand Old Party repubblicano, non amano questo Bush 3.0: gli ricorda, nella sua moderazione, l’esecrato Bush 1.0, la prima edizione della Dinasty, considerato troppo ragionevole e internazionalista. Quella moglie cubana, quella bella famiglia di uomini e donne con sangue pericolosamente latino, quel suo ovvio appeal alla comunità latina del Nord America, fanno intravedere il rischio micidiale, per gli ultrà repubblicani, di una riforma dell’immigrazione con l’anatema della parola impronunciabile: amnistia e naturalizzazione dei “clandestini”.Tanto Barack Obama era stato il sogno di un grande balzo in avanti della asmatica politica americana, quanto la prospettiva di un remake del film Clinton-Bush è un grande balzo all’indietro, un rassegnato “meno peggio tanto meglio”. Ma se anche Jeb dovesse rinunciare, nonostante la nota disponibilità di finanziatori pronti a sborsare quegli almeno 5 miliardi di dollari che serviranno per la campagna elettorale 2016, i “bushistas” non si perdono d’animo. Il primogenito di Jeb, un George anche lui, ma con una “P” in mezzo, per distinguersi da “H” e “W” nella minestra dell’alfabeto cara alla dinastia, è già in politica a 38 anni, eletto Assessore al Territorio nel natìo Texas. Ci sarà sempre un Bush che ritorna, nel futuro dell’America.