Il Messaggero, 12 novembre 2014
Il comandante Lee Jun-Seok, il settantenne condannato a 36 anni di galera perché il suo traghetto, colmo di studenti in gita, è colato a picco. Alla giustizia sudcoreana sono bastati sette mesi per concludere un processo così complesso. E lui ha lo sguardo colmo di imbarazzo e di vergogna. «Perché forse ce lo siamo dimenticati, ma altrove può ancora succedere che un condannato si senta colpevole». Altro che Schettino
La Stampa,
Alla fine che cosa ci colpisce della sentenza sudcoreana che ha condannato a 36 anni di carcere il comandante di un traghetto colato a picco con il suo allegro carico di studenti in gita? La durezza della pena, certo, specie se rapportata all’età di un imputato quasi settantenne, e benché giustificata agli occhi dell’opinione pubblica dal suo comportamento vile. Il capitano abbandonò la nave in incognito, mentre con atto abominevole i suoi sottoposti invitavano i passeggeri ad andare sotto coperta e nel frattempo calavano in acqua le scialuppe per mettersi in salvo. Poi ci sconvolge l’efficienza a noi ignota della giustizia asiatica, capace di concludere un processo di questa complessità ad appena sette mesi dagli eventi.
Eppure l’aspetto che, almeno a me, sorprende di più è la faccia del comandante Lee Jun-Seok. Il suo sguardo colmo di imbarazzo e di vergogna. Perché forse ce lo siamo dimenticati, ma altrove può ancora succedere che un condannato si senta colpevole. Da Totò Riina all’ultimo ladro di polli, qui tutti si considerano innocenti. Anche e soprattutto dopo la sentenza definitiva, quando cominciano a chiedere la revisione del processo e, se non più per la verità giudiziaria, si battono per la verità storica, cioè per l’assoluzione alla memoria, indossando i panni della vittima incompresa e del capro espiatorio. Lo sdoppiamento dell’italiano davanti al naturale esito dei suoi gesti irresponsabili è un fenomeno che affascina da sempre la psicanalisi, come non mancherà di spiegarci in una delle sue prossime lezioni universitarie a piede libero il professore emerito Francesco Schettino.
Massimo Gramellini
Il Messaggero,
Ci ha messo appena sette mesi la giustizia sudcoreana per fare il suo corso: Lee Jun-seok, comandante del traghetto Sewol, affondato il 14 aprile al largo delle coste meridionali della Corea del Sud, con un bilancio di 304 vittime, quasi tutti studenti in gita, è stato condannato a 36 anni di carcere. Lee, 69 anni, che le immagini video hanno mostrato seduto sul banco degli imputati con indosso la divisa verdognola dei galeotti, è stato ritenuto colpevole di «grave negligenza» per aver abbandonato la nave con molti passeggeri ancora a bordo. Il comandante è stato tuttavia prosciolto dall’accusa di omicidio che, se accolta, avrebbe potuto costargli la pena di morte, esistente nell’ordinamento sudcoreano ma di fatto congelata in una moratoria avviata nel 1997. Il traghetto Sewol affondò a causa di una manovra errata del terzo ufficiale, una ragazza di 26 anni con solo un anno di esperienza, cui il comandante aveva affidato il timone mentre lui se ne stava in cabina. Una brusca virata causò lo spostamento del carico, facendo inclinare la nave su un fianco e infine facendola affondare.
IL DISASTRO
Si sarebbe saputo più tardi che la nave Sewol aveva un carico tre volte superiore a quello consentito dagli standard di sicurezza. Ma questa non è stata la sola negligenza a carico del comandante e della società armatrice. È ancora davanti agli occhi di tutti (quel video ha fatto il giro del mondo) il precipitoso abbandono della nave da parte del comandante Lee in mutande. Non si era neanche rivestito, il comandante, ed era così riuscito a salire sul primo battello dei soccorsi giunto sul luogo del disastro. In Italia assistemmo a scene simili solo due anni prima, con il naufragio della Concordia, ed è stato inevitabile anche per i media coreani tirare in ballo la vicenda del comandante Francesco Schettino, il paragone più facile che si potesse fare.
Altra negligenza enorme fu l’inspiegabile ordine impartito ai passeggeri di «restare al sicuro nelle cabine» in attesa dei soccorsi quando lo scafo aveva già cominciato ad inclinarsi e mentre il comandante e l’equipaggio stavano già abbandonando la nave. La presidente sudcoreana Park Geun-hye finì nel mirino dell’indignazione pubblica per l’inefficienza dei soccorsi e la pessima gestione della crisi. Lei si scusò, in lacrime, in un discorso alla Nazione, descrivendo le azioni dell’equipaggio del Sewol come «simili all’omicidio» e auspicando pene severe a carico dei responsabili e indagini rapide.
LE ALTRE PENE
Oltre al comandante Lee, la Corte ha condannato a 30 anni l’ingegnere capo per omicidio, con l’accusa di aver lasciato la nave senza aiutare i colleghi feriti. Pene dai 5 ai 20 anni di carcere sono state decise per altri 13 componenti dell’equipaggio.
Intanto, prima della lettura della sentenza, il governo sudcoreano ha deciso di mettere fine alle ricerche dei dispersi: il ministro del Mare ha comunicato che nove persone mancano ancora all’appello. Il bilancio ufficiale della catastrofe parla, lo ricordiamo, di 304 morti su 476 passeggeri a bordo.
Carlo Mercuri