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 2014  novembre 12 Mercoledì calendario

A dieci anni dalla morte di Arafat la moglie Suha lancia un appello: «È facile fare la guerra, difficile fermarla. Dobbiamo continuare nei negoziati». È certa che suo marito soffrirebbe nel vedere come è ridotta la Palestina: «L’aveva trasformata in un paese laico, la gente andava in spiaggia a Gaza. Non avrebbe mai immaginato che potesse diventare uno Stato islamico. Gli americani sono stati accontentati: ora se la vedono con Hamas»

«Tanti dicevano che mio marito fosse un ostacolo alla pace. Abbiamo visto, dopo la sua morte, che fine ha fatto la pace». Suha Arafat non si rassegna nel vedere i “fratelli” palestinesi combattersi anche nel giorno in cui si commemora Abu Ammar, nome di battaglia di Yasser Arafat, morto l’11 novembre 2004 nell’ospedale di Percy, vicino Parigi. È stato un anniversario di sangue a Gaza e in Cisgiordania. Hamas ha vietato le celebrazioni nella Striscia, dirigenti ed edifici di Fatah sono stati attaccati. «Mio marito è stato l’unico capace di unire le diverse fazioni palestinesi», sottolinea al telefono Suha che vive a Malta con la figlia Zahwa, nata nel 1995, dopo il matrimonio con Arafat. Avevano trentaquattro anni di differenza, lei era la sua segretaria e traduttrice. «L’ho amato e mi ha amato molto. Ma se tornassi indietro non sono certa che lo rifarei – racconta – ho subito tante maldicenze e ingiustizie. Anche adesso che sono vedova e sola continuano a inventare storie su di me». È stata accusata di aver sottratto fondi dell’Autorità palestinese e di vivere nel lusso. «Avevano anche detto che non ero con lui all’ospedale mentre stava in coma. Per fortuna, c’erano i medici testimoni. Avrei potuto fare cause, ma mio marito mi ha insegnato che non bisogna curarsene». Il raìs riposa nel mausoleo eretto alla sua memoria nella Muqata che negli ultimi anni divenne la sua prigione.Qual è l’ultima immagine che conserva di Arafat?«Ho passato quindici giorni al suo capezzale. Cercavo di risvegliarlo dal coma, parlandogli. Leggevo dei versetti del Corano. Gli ho messo in mano una medaglia della Vergine miracolosa della rue du Bac, a Parigi, in cui io credo molto. Aveva evitato la morte così tante volte. È scampato ad attentati e tentativi di omicidio di ogni tipo. Ero convinta che ce l’avrebbe fatta anche questa volta. Le ultime parole le ha dette a Zahwa, che aveva nove anni».È convinta che sia stato vittima di un omicidio politico?«In base ai prelievi che sono stati fatti sulla salma, gli esperti svizzeri hanno evidenziato una dose eccessiva di polonio che potrebbe aver causato la morte. I periti francesi sostengono invece che le tracce di polonio vengono da una contaminazione esterna. La magistratura sta ancora indagando. Ho fiducia che la giustizia francese troverà la verità».
E chi avrebbe avvelenato il leader palestinese?

«Molti volevano sbarazzarsi di lui. Non posso accusare nessuno, né Israele, né altri nel cerchio di persone vicine a lui».
Abbas ha implicitamente accusato Mohamed Dahlan, l’ex leader di Fatah a Gaza.

«Sono due leader palestinesi che rispetto. Sono amica di entrambi. Non vorrei che l’inchiesta sulla morte di Arafat venga usata come mezzo di battaglia politica. Dobbiamo lavorare per una riconciliazione nazionale. La nostra è ancora una società tribale, in cui le vendette possono durare per generazioni».
Perché ha incominciato a cercare la verità solo otto anni dopo la morte?

«Avevo dei sospetti. Arafat è morto di un’infezione intestinale senza avere mai avuto febbre. Ma è accaduto tutto in modo veloce. È solo grazie a un giornalista di Al Jazeera che nel 2012 ho incominciato a vedere le troppe incongruenze e le analogie con l’avvelenamento al polonio di Alexandre Litvinenko, avvenuto nel 2006».
Dieci anni dopo, cosa rimane delle sue lotte?

«Mio marito soffrirebbe nel vedere com’è ridotto il nostro paese. Siamo divisi come tutto il mondo arabo. Arafat aveva trasformato la Palestina in un paese laico, la gente andava in spiaggia a Gaza. Non avrebbe mai immaginato che potesse diventare uno Stato islamico. Mi ricordo quando George Bush diceva che bisognava dialogare con una nuova generazione di leader palestinesi. Gli americani sono stati accontentati: ora se la vedono con Hamas».
E a Gaza i palestinesi ieri non hanno potuto ricordare Arafat.
«Hamas non aveva il diritto di vietare le celebrazioni per la morte di Arafat. È inaccettabile. E comunque niente e nessuno può cancellare il ricordo di Arafat. È nel cuore di tutti i palestinesi».
La leadership di Abbas è troppo debole?
«È un uomo di buona volontà. Non è facile prendere il posto di Arafat. Chiunque si sentirebbe inadeguato. Mi sono sempre chiesta dove mio marito trovasse tutta quella energia. È stato l’unico che ha riunito tutte le fazioni palestinesi nell’Olp. Sapeva dare una linea e farla rispettare. Quando ha deciso di riconoscere Israele, è stato criticato, ma è andato avanti, si è preso le sue responsabilità ».
Ma ha anche lanciato l’Intifada. L’eredità di Arafat è tornare alla “resistenza armata”, come sostiene dal carcere Barghouti, l’ex capo delle milizie di Fatah?

«La Storia dirà se Arafat ha fatto bene a dichiarare l’Intifada. Ora però abbiamo milioni di profughi. Bisogna proteggere i nostri bambini. È facile fare la guerra, difficile fermarla. La lotta armata oggi non porterebbe più a niente. Finiremo solo schiacciati. Le forze in campo sono impari. Dobbiamo continuare nei negoziati, dimostrando semmai che è Israele che non vuole la pace».
Il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte della Svezia è un segnale incoraggiante?

«Spero che l’Italia farà altrettanto. Federica Mogherini ha detto delle cose giuste a proposito della causa palestinese. Ricordo una foto di lei giovane alla Muqata, in un incontro con Arafat. Il vostro premier, Matteo Renzi, dovrebbe esprimersi più chiaramente in favore dello Stato palestinese. E ovviamente nessuno di noi deve mettere in discussione l’esistenza dello Stato di Israele».
Ma non è la posizione di Hamas.

«Hamas ha preso un popolo in ostaggio. Quando vedo quello che sta accadendo a Gaza... È un genocidio. Una generazione che sta crescendo nella violenza, senza istruzione, con l’unica speranza di emigrare. Spero che Hamas finalmente capisca e si adoperi per i negoziati di pace».
Zahwa Arafat ha conosciuto poco suo padre. Come le parla di lui?
«Dal punto di vista politico ne sa quasi più di me. È iscritta alla facoltà di Scienze Politiche. Studia i libri di storia, imparando molte cose su suo padre. È un leader internazionale che verrà ricordato al pari di Fidel Castro e Che Guevara».
Perché non torna in Palestina?

«Non riesco a immaginare di andare in Palestina, specialmente a Gaza, come fossi un’ospite. Sono a casa mia. E fino a quando non sarà possibile essere accolta in queste condizioni, non andrò».