Il Fatto Quotidiano, 11 novembre 2014
Francesco De Gregori si racconta. L’ultimo disco, la vecchiaia e gli amici. «Mi manca solo Lucio»
Il cane senza collare della musica italiana ha lasciato libero guinzaglio ai ricordi. A guardarci dentro, mentre passano davanti agli occhi crociere straordinarie e scommesse perdute sul fondo del caffè, sembra ancora ieri. La scena è cambiata, l’adolescenza divorata di certi suoi personaggi è diventata maturità virtuosa di chi sa rileggersi e anche “se tutto sta perdersi nel tutto e niente si può misurare più”, per valutare la grandezza di Francesco De Gregori e l’eternità di certi versi, Viva-Voce (Caravan-Sony), è il metro adatto. Non una bolsa raccolta di successi e neanche, o almeno non semplicemente, un’enciclopedia del meglio di una produzione ultraquarantennale. Ma una rilettura completa – “onesta” sottolinea De Gregori – di 28 brani che ritornano storici proprio perché lasciano il mito dell’evocazione obbligata in quarantena. Niente più marce militari in Generale, resa più “domestica”, più “canzone di pace che riflessione sulla guerra”. Niente orchestre ne La Donna Cannone (lasciata al consapevole spoglio, alla sottrazione preziosa di Piovani: “perché Nicola, non sa solo comporre musica, ma la sa anche ascoltare”).
Niente timore soprattutto di abbandonarsi ai debiti (nel disco ballano omaggi alle influenze dylaniane e alle eredità di Leonard Cohen) e di richiamare idealmente sul palco gli amici come Dalla in Santa Lucia (la coda riecheggia e si inchina a Come è profondo il mare) con l’unico divieto della retorica e del manicheismo. Solo le “persone facili non hanno dubbi mai” cantava De Gregori e fuori dal palco, il rapporto con Lucio “discontinuo, geniale, a volte reciprocamente irritante perché eravamo molto diversi, entrambi maleducati, ma affetti da una diversa forma di maleducazione” si alimentava nel contrasto e nella vicina lontananza e dava vita a collaborazioni inattese. “C’era tra noi una misteriosa spinta a cantare insieme. Del binomio si sono viste le due punte emerse, Banana Republic e la tournée condivisa a trent’anni da quella esperienza, ma io e Lucio non ci siamo mai veramente persi di vista. Se fosse stato ancora vivo, con altissimo grado di probabilità, ci saremmo incontrati ancora. Il vero lutto è non potermi più divertire con lui”. De Gregori continua a camminare da solo: “Come un marziano, come un mascalzone”.
A suonare con i vecchi compagni di sempre: “Guido Guglielminetti è stato fondamentale per diradare i timori. Provando nuove soluzioni mi confrontavo con lui. Titubavo. Gli dicevo ‘questa metrica è sbagliata dal punto di vista protocollare’ e lui rispondeva ‘che ti importa? Va benissimo proprio per questo”. A viaggiare. Il “magico 4per4 del circo di Brema” ha levato le tende, ma tra una tappa a Stoccarda, una presentazione in libreria, un passaggio a RTL e la preparazione del tour dell’anno che verrà (date in marzo a Roma e a Milano, previsti ospiti, forse Ligabue che in VivaVoce lo accompagna in Alice) l’anagrafe rimane un tema sullo sfondo.
“Non me ne è mai fregato niente di essere il più giovane della tavolata da ragazzo e me ne frego di non esserlo più adesso” giura e anche se l’orizzonte si è accorciato: “Ho meno anni da vivere, una condizione comune a chi è nato nel ‘51”, equilibrio e serenità, in VivaVoce, mutano in manifesto esistenziale. In coraggio iconoclasta. Vanno giù i monumenti, si costruiscono nuove case “con il legno e col cartone”. La forza è nella base. La forza è altrove. Al principio, racconta De Gregori: “Mi sentivo prestato alla musica. Inadeguato. Per capire, con una certa lentezza, c’è voluto tempo”.
Ora che la storia è stata scritta, trasformare le note, sfiorare il jazz, lucidare le atmosfere dei 50 e provare altri possibili finali per una favola intoccabile e tramandata da generazioni, non è un gioco ozioso né un’operazione calcolata. Se la pulsione naturale “è provare a fare le cose che non so fare e non saprò mai fare”, quel che De Gregori non nega di ignorare: “Non sono uno sciamano” sa almeno cantarlo benissimo. La gioia nascosta è sentirsi ancora libero. “Bisogna fare e rischiare”. Come in un alba degli Anni 70. Appoggiato a un muro, in attesa di un volo e del suo manager, De Gregori immaginava rughe e volti crollati come dighe.
Oggi come allora “la gente va veloce e il tempo scorre piano”, ma De Gregori ha trovato la melodia per volare leggero e dissacratorio su ciò che detesta.
Tende alla bellezza: “Mi piacerebbe se tornassimo a cercarla”. Ha “avuto tempo sufficiente per imparare” e osserva le segrete stanze dell’invenzione senza pelosi rimpianti tra sé e le sue parole. Ha cantato “per tutti quelli che hanno gli occhi e un cuore”, per “chi non ha capito”.
Ha preso navi, treni e sogni. Non ci ha lasciato incubi. Con lunghe sciarpe nere e cappelli a falda larga ha scelto “la semplicità” di una canzone. Mai aulico: “I poeti che brutte creature”. Non sovrapponibile: “Non mi confondere con niente e con nessuno, niente e nessuno ti confonderà”. Disposto a sporcarsi. Incline alla contaminazione. Anche in VivaVoce: “E quel che resta di pulito/ ficcalo nel buco del tuo ego”.