il Giornale, 11 novembre 2014
Silvio Negro, il giornalista veneto che spiegò Roma ai romani. Cronista colto e infaticabile, inventore del «vaticanismo», raccontò i segreti della Capitale come pochi altri hanno fatto
A chi sprezzantemente definiva Roma «provinciale», Silvio Negro (1897-1959) placidamente replicava: «Una città che ha messo in circolo il chi se ne frega è il contrario esatto di qualsiasi provincialismo». Dietro quel motto, bonariamente cinico più che altero, c’era la consapevolezza di una inscalfibile eternità, ovvero l’impossibilità a giudicare con metri comuni, il tempo e lo spazio, l’efficienza e la morale.
Era un qualcosa che nell’Ottocento aveva colpito un antichista come il Winckelmann: «Per quanto uno sia grande o meschino, Roma gli dice che cosa è veramente in lui, come una verità inesorabile, e siccome spezza senza pietà ogni superbia, così anche solleva gli scoraggiati e gli avviliti con il conforto della storia e la fonte inesauribile dei più alti beni dell’arte».
Era anche questo a spiegare il paradosso di una romanità senza romani: nel 1870, la Roma non più papalina e non ancora capitale contava 170mila abitanti, divenuti a metà del Novecento un milione e mezzo e insomma i «romani de Roma» più che una minoranza erano un miraggio: il padre di Pascarella era piemontese, la madre di Trilussa era nata a Bologna. Quanto a Silvio Negro, il più insigne dei «romanisti», era veneto.
Adesso che esce una nuova edizione di Roma, non basta una vita (Neri Pozza, pagg. 398, euro 18; introduzione di Stefano Malatesta; prefazione di Emilio Cecchi), il libro postumo che, dietro suggerimento di Orio Vergani, Henry Furst e Carlo Laurenzi misero insieme con gli articoli da Negro pubblicati dagli anni Trenta agli anni Cinquanta, la prima impressione, da collega e non da lettore, è di sconforto rispetto al decadere di una professione. Oggi come oggi, non li pubblicherebbe nessun quotidiano: troppo lunghi, troppo colti, troppo sganciati dall’attualità... È anche vero che, sempre oggi come oggi, non ci sarebbe nessuno in grado di scriverli: così informati, così leggibili, così sapientemente intelaiati...
Negro appartiene a quella che è stata l’ultima grande stagione del giornalismo italiano, quella tra il fascismo e la guerra, i nati fra la fine dell’Ottocento e il primo quarto del Novecento, da Ansaldo e Malaparte a Piovene e Buzzati per intenderci, passando per Lilli e David, Montanelli e Cervi, Longanesi e Emmanuelli, con qualche fuori quota all’inizio e alla fine del ciclo, i precursori e gli ultimi epigoni, ma tutti accomunati da robusta cultura, irresistibile curiosità, uso di mondo, amore per il mestiere, passione per il proprio Paese.
Il miglior ritratto di Negro è quello che proprio Orio Vergani scrisse in Misure del tempo: «Seduto all’estremo angolo del tavolo di redazione del Corriere della Sera, affannato al lavoro come se fosse stato febbricitante, dannato all’ossessione della penna, delle forbici, del pentolino della colla e a quella delle virgole, del punto e virgola, dei due punti e del “punto esclamativo” che, allora, il direttore Ugo Ojetti aveva severamente bandito dalla nostra tipografia. Schedava tutto, marciava lento, con il suo passo di “scarpone montanaro” sui sentieri della precisione: io, il capriccio e la bugia, lui, caro Silvio, la pazienza e la verità».
Aveva, Negro, oltre l’istinto e la capacità di improvvisazione, una vena di topo di biblioteca che proprio il giornalismo gli consentì di vivificare, liberandola dalla polvere del mero collezionismo, dell’erudizione compiaciuta e fine a se stessa, della bibliomania come feticcio. Roma, non basta una vita è il frutto di un erudito illuminato, «con la capacità di sintesi e di scorci di uno storico d’eccezione» scrisse ancora Vergani.
È proprio questo a farne un libro ineguagliabile, dove l’aneddotica si fa genere letterario e non c’è spazio per l’elemento dialettale. Al tempo della campagna giornalistica al grido di «capitale corrotta=nazione infetta», l’eterno velleitario moralismo dell’Anti-Roma, sentite come prende posizione: «“Visto e considerato” scriveva il cittadino Umbricio a Giovenale milleottocento anni fa “che qui a Roma non c’è più posto per i lavoratori onesti, ho preso la decisione di tornarmene a Cuma. Restino pure a Roma, caro Giovenale, quelli per i quali è un gioco da ragazzi ottenere appalti, restino pure a Roma gli strozzini delle pompe funebri; ci restino quelli che non esitano a vendere l’anima al miglior offerente. Io me ne vado“». Già, milleottocento anni fa... «La conclusione è piuttosto ovvia. Poiché Roma è un mondo, i bricconi vi hanno sempre avuto la loro parte, sotto tutti i regimi».
L’idea di Roma come mondo, città che trascende se stessa e diventa vera e propria metafisica, è una delle chiavi del libro. Le luci insolite fra i palazzi, le piazze che ne esprimono il carattere, le iscrizioni misteriose e i colori delle case, «una legge della natura, i toni forti e opachi in cui può averci persino la sua parte anche il temperamento d’una gente che non ha mai avuto vocazione alla grazia, fantasia per la delicatezza...». Il libro è fatto anche di annotazioni così, apparentemente svagate e che però rendono l’idea di un’unicità, unita alla capacità di far risaltare il particolare nel racconto ampio di fatti e gesta plurisecolari. Era stato, Negro, l’inventore del «vaticanismo» come genere giornalistico, e questo gli aveva fra l’altro permesso una conoscenza d’eccezione della Roma papalina da cui sarebbe scaturito quel Vaticano minore che gli valse nel 1936 il Premio Bagutta.
Scrive Stefano Malatesta nella sua introduzione che la lettura di Roma, non basta una vita «meraviglierà molti giovani romani che non hanno mai conosciuto la Roma di una volta» e ha ragione. Rispetto a quella di adesso, gli viene da pensare che «la Roma che abbiamo conosciuto da ragazzi sia una leggenda metropolitana, una cosa molto simile all’Asia di Prokosch» e solo leggendolo ha avuto la conferma «che non avevamo sognato»; e anche qui non sapremmo dargli torto. «Roma non è cambiata, è scomparsa, come fosse finita in un buco nero. Questa volta la sua immortalità, il suo essere sempre se stessa nei cambiamenti non ha funzionato» conclude e su questo giudizio senza appello credo che Negro avrebbe sorriso, perché il suo libro, a cominciare dal cittadino Umbricio prima citato, è pieno di rimbrotti che nel corso dei secoli l’hanno attraversata, certificati di morte periodicamente rilasciati, sussulti di indignazione e rassegnazione.
Il fatto è che non basta una vita, appunto, per afferrarne l’essenza e viene in mente quel verso di Rimbaud usato da Margherite Yourcenar per le sue memorie: «Elle est retrouvée/ Quoi? – L’Eternité».