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 2014  novembre 11 Martedì calendario

Ma Abu Bakr Baghdadi è vivo o morto? È giallo sulla sorte del Califfo. Intanto la Rete impazzisce a colpi di tweet falsi o verosimili

Siamo davvero a una svolta del conflitto contro lo Stato Islamico? La sorte del Califfo Abu Bakr Baghdadi è un giallo. Ferito gravemente in un raid aereo intorno a Mosul secondo gli iracheni, addirittura morto stando ad altre fonti arabe. Il Pentagono per ora non si sbilancia e parla di un attacco a una colonna di blindati senza fare nomi eccellenti. La vicenda riporta l’attenzione sulla campagna aerea e sulle mosse di Obama, che pur uscito come un’anatra zoppa dalle elezioni di midterm, ha rilanciato inviando altri 1.500 soldati ad assistere il tremebondo esercito iracheno.
L’unica certezza è stata la convulsa battaglia sul web a colpi di twitter falsi o verosimili: la rete è il terreno preferito della propaganda del Califfato, ma anche quello in cui si sono lanciati i servizi occidentali e del Golfo per stanare i jihadisti. Ecco perché ieri sono comparse in poche ore due “bufale”, prima con il finto profilo del portavoce dello Stato islamico, il siriano Al Adnani, che invitava «a pregare per la salute di Baghdadi», poi con quello ancora più falso del ministro degli Esteri iracheno Ibrahim al Jafaari che annunciva la morte di Baghdadi poi smentita. C’è chi getta semplicemente scompiglio ma ci sono pure le manovre, per nulla casuali, dirette a screditare le fonti.
Quando sapremo la verità? La battaglia in rete potrebbe costringere i jihadisti, per difendere la loro credibilità, a rivelare la sorte del Califfo. Oppure dovremo attendere una fonte occidentale perché le notizie di governi e media arabi sono influenzate da calcoli politici assai spregiudicati.
Due sono gli interrogativi. Il Califfo Baghdadi ha un successore? E in che modo la sua uscita di scena può influire sullo Stato islamico? L’organigramma del Califfato è avvolto nel mistero, anche se sui media compaiono “foto di famiglia” dei vertici con volti più o meno conosciuti. Il vice di Baghdadi viene indicato in Al Turkmani, secondo gli iracheni ucciso nell’ultimo raid insieme a un altro leader, Abu Saja.
Baghdadi, che ha proclamato il Califfato nel giugno scorso – comparendo in pubblico la prima volta alla moschea di Mosul il 5 luglio e l’ultima alla vigilia del Ramdadan – capeggia una struttura con un gabinetto, il Consiglio della Shura, da cui dipendono i governatori locali incaricati di applicare una sanguinaria versione della sharia, la legge islamica: il Califfato, a cavallo tra Iraq e Siria, ha un’estensione otto volte il Belgio con una popolazione di oltre dieci milioni. Dal Califfo dipende l’Ufficio di Guerra: si occupa di un esercito stimato in 30mila uomini, metà provenienti dai Paesi occidentali. Qui si trovano i luogotenenti che detengono il vero potere. Dei vertici abbiamo i nomi ma non è detto che tra questi possa essere designato il successore.
Baghdadi, che si autodefinisce Califfo Ibrahim, si è sempre mantenuto nell’ombra ma ha scelto con cura il ruolo, anche nel nome. Quello vero è Ibrahim Badri Samarrai, ma ha deciso di farsi chiamare Abu Bakr, come il primo dei quattro califfi, aggiungendo il nome Hussein, il nipote del Profeta venerato dagli sciiti, e quello di Quraishi, la tribù di Maometto. Una “genealogia” densa di simbolismi che rivela ambizioni elevate per un oscuro militante incarcerato dagli Usa a Camp Bucca nel 2004.
La questione della successione è politica, militare ma anche religiosa, con riflessi internazionali non indifferenti sul reclutamento: il Califfo è il vicario del Profeta che deve assicurare l’unità dei musulmani a prescindere dalle differenze nazionali. Il ripristino del Califfato, abolito in Turchia nel 1924 da Kemal Ataturk, è al centro del progetto dell’Isil, un movimento composito sotto il profilo etnico e della nazionalità dei militanti. È questa restaurazione radicale che attira i combattenti e suscita adesioni: l’ultima è quella del gruppo jihadista egiziano Ansar Beit Al Maqdis, i partigiani di Gerusalemme, che ha appena giurato fedeltà al Califfo.
Un aspetto è interessante: mentre i predecessori di Al Baghdadi, compreso Musab Zarqawi, ucciso nel 2006, guidavano un’organizzazione fortemente centralizzata, la nuova leadership jihadista si è scelta dei vice, dei capi locali, gli emiri, e conta su un apparato sofisticato. Con questa struttura articolata è logico immaginare che sia stato previsto un “comitato di crisi” per garantire la sopravvivenza del Califfato. La scomparsa eventuale del Califfo e quella dello Stato islamico possono non coincidere: l’uccisione di Bin Laden non fu la fine di Al Qaeda e neppure quella in Yemen del predicatore Anwar Awalaki segnò la fine del terrorismo nella penisola arabica.