Il Messaggero, 11 novembre 2014
Il Laocoonte visto dal cardinale Gianfranco Ravasi, che ha scritto un libro-guida ai capolavori dei Musei Vaticani. Ecco un brano in anteprima
Si erge, nel cuore del Pio-Clementino, e più precisamente nel settecentesco «Cortile Ottagono», in una sorta di urlo muto e in un impressionante divincolarsi frenetico di membra che però rimangono immobili. È il complesso statuario che tutti conoscono, almeno dalle pagine di un manuale scolastico, il Laocoonte, sacerdote di Apollo, figlio di Priamo, re di Troia, avviluppato coi suoi due ragazzi dalle spire dei due mostruosi serpenti, emersi dalle onde marine. A questa immagine sovrapponiamo ora un’altra scena. In una fredda ma limpida giornata romana, il 14 gennaio, sul colle Oppio, in una vigna di proprietà di un tale Felice de Fredis, le pale di alcuni servi stanno liberando dal terriccio un grandioso complesso marmoreo alto due metri e mezzo.
PLINIO
È appunto Laocoonte che risorge dalla tomba oscura ove riposava da una quindicina di secoli. Si può immaginare la sorpresa di quei lavoratori trovandosi davanti a quei corpi marmorei atterriti e ai serpenti agghiaccianti. Ci può fare da guida per interpretare questa scoperta un antico testo che ci riporta indietro nei secoli: è la Naturalis Historia di Plinio il Vecchio, nato a Como tra il 23 e il 24 d.C. e perito tragicamente a Castellammare di Stabia sotto la lava del Vesuvio (...) Scriveva quell’autore dal sapere enciclopedico: «Laocoonte, situato nella casa del generale Tito, è opera da preferirsi a tutte quelle in pittura o in scultura bronzea. I sommi artisti Agesandro, Polidoro e Atenodoro di Rodi di comune accordo scolpirono da un unico masso lui, i suoi figli e i mirabili viluppi dei serpenti» (XXXVI, 37).
Siamo, dunque, nell’area delle Terme di Traiano, ove prima sorgeva la dimora dell’imperatore Tito e prima ancora la splendida Domus Aurea neroniana e ora si leva il colle Oppio, poco distante dall’attuale basilica di Santa Maria Maggiore. In dissolvenza ritorniamo ora a quella giornata invernale. Di fronte a quei corpi inarcati ed esasperati eppure fissi nella «nobile semplicità e quieta grandezza» – come dirà un consulente dei nostri due papi, l’archeologo e storico dell’arte tedesco Johann Joachim Winckelmann – stanno due persone. Sono ammutolite e affascinate: Michelangelo Buonarroti, da un lato, e l’architetto fiorentino Giuliano da Sangallo, dall’altro, inviati sul luogo dal papa di allora, Giulio II. Giuliano non ha esitazioni ed esclama: «Questo è il Laocoonte menzionato da Plinio!». Ma il suo pensiero corre forse anche al libro II dell’Eneide di Virgilio e alla clamorosa storia di questo leggendario sacerdote che era stato al centro di una vicenda mitico-politica. Per narrarla mi immagino ancora ragazzino, quando ascoltavo per la prima volta la storia (...)
Sulla spiaggia di Troia si levava il misterioso cavallo ligneo abbandonato dai Greci. Festosi, i Troiani lo circondavano considerandolo come l’emblema votivo di quei nemici ormai in fuga e rassegnati alla sconfitta. Solo lui, Laocoonte, lancia un grido inascoltato: quel colossale cavallo è un inganno, una specie di ordigno di morte! Oggi sappiamo quanto quel monito fosse vero perché il ventre enorme del cavallo custodiva un plotone di armati greci, pronti a infiltrarsi di notte nella città di Troia.
TROIANI
E la formula «cavallo di Troia» diverrà uno stereotipo per designare ogni tranello o trappola ingannatrice. Sul sacerdote piomberà, invece, il giudizio vendicativo delle due divinità protettrici dei Greci, Poseidone e Atena, e i due serpenti ne saranno gli esecutori implacabili. Virgilio, però, nel suo poema vedrà in questa punizione un segno fecondo: la fine di Troia sarebbe stata il seme di Roma perché al rogo della città sfuggirà Enea, la cui discendenza darà vita alla grandiosa capitale imperiale. Essa paradossalmente accoglierà nel suo sottosuolo proprio l’impressionante statua del I secolo a.C. che ora è davanti a noi nell’Ottagono del Museo Pio-Clementino. Plinio il Vecchio, che ci è stato d’aiuto nel decifrare quest’opera, forse aveva potuto rivedere la stessa scena mitica dipinta sulle pareti di Pompei, nella cosiddetta Casa di Laocoonte o in quella del Menandro, prima che su di esse si stendesse il sudario delle ceneri vesuviane. È difficile staccarsi da questo complesso così potente e lacerante ove sembrano raggrumarsi il dolore e la violenza, la disperazione dei volti ma anche l’ineluttabilità di un destino sacrale contro cui l’uomo si sente impotente, proprio come cantava Oscar Wilde nel suo De profundis: «La sofferenza permane, oscura e cupa / e ha la natura dell’infinità».