Il Messaggero, 11 novembre 2014
Muhammad Alì raccontato con parole sue. Hana, settima dei nove figli della leggenda del pugilato, parla del documentario della regista Clare Lewins che esce domani in home video. E svela come nel film siano state inserite anche le registrazioni delle telefonate effettuate dallo stesso campione: «Sono conversazioni familiari, ma anche bozze di discorsi e discussioni con la Casa Bianca»
Due donne hanno messo al tappeto Muhammad Ali. Si chiamano Clare e Hana, rispettivamente la regista di “I Am Ali” e la figlia del più grande pugile della storia della boxe. Domani esce in home video anche in Italia il bellissimo documentario diretto da Clare Lewins dove Hana, settima dei nove figli avuti dal campione da quattro matrimoni diversi, ha potuto realizzare uno dei suoi sogni: mostrare il lato più intimo di un uomo che era anche un padre. “I Am Ali” ci permette di conoscere la leggenda ora settantaduenne in una versione più intima. Per la prima volta, avremo il privilegio di ascoltare delle conversazioni private registrate da Ali nel corso degli anni in seno alla sua famiglia. E nella scelta di rendere pubblici quei nastri, c’è proprio lo zampino della quarantenne Hana.
Come è nata l’idea di inserire quei nastri dentro il film di Clare Lewins?
«Papà cominciò a conservare con costanza le nostre parole e dialoghi in famiglia a partire dal 1975, anno della mia nascita, fino al 1985 ovvero un anno prima che divorziasse da nostra madre e un anno dopo che gli diagnosticarono il morbo di Parkinson. Stiamo parlando di circa 90 audiocassette da un’ora ciascuna».
Di cosa parlavate con lui in quelle conversazioni?
«Del nostro futuro. Ci provocava perché ci diceva che lui aveva deciso cosa sarebbe stata tutta la sua vita già a 12 anni. Appena arrivate ai 7 anni, ci avvertiva che avevamo ancora solo cinque anni per poter organizzare un piano esistenziale concreto».
E cosa altro contengono?
«Bozze di discorsi che avrebbe tenuto nei college, telefonate con gli altri figli che vivevano a Chicago, lunghe conversazioni con George Foreman in cui cercava di convincerlo a tornare a boxare per riprendersi il titolo di campione... Addirittura delle lunghe discussioni con la Casa Bianca all’epoca degli ostaggi americani presso l’ambasciata di Teheran del 1979. Papà voleva aiutarli a tornare e passò ore al telefono con il Presidente Jimmy Carter».
Perché i nastri sono stati secretati per tutto questo tempo?
«Li aveva affidati tutti a me e fino all’incontro con Clare Lewins non avevo mai pensato a una loro diffusione pubblica».
Che cosa ha fatto questa regista per meritare la sua fiducia?
«È partito tutto dall’incontro tra Clare e Gene Kilroy, lo storico manager di papà. Loro due si accordarono per un nuovo documentario e Clare venne a intervistarmi per inserirmi nel film. Poco prima dell’inizio della nostra chiacchierata lei mi mostrò parte del suo girato e io rimasi colpita dalla sensibilità del tocco e dall’emozione che veniva fuori da quelle immagini. Decisi di farle vedere un dvd che avevo regalato a papà per il suo settantesimo compleanno in cui mi ero divertita a montare alcune delle nostre conversazioni contenute in quei misteriosi nastri. Clare mi propose immediatamente di inserirle nel suo film».
È stato duro selezionare il materiale per il film?
«Durissimo. Clare ha usato solo 12 minuti delle circa 90 ore di registrazione. Stiamo lavorando a un libro che possa contenere in futuro la trascrizione integrale di tutte quelle conversazioni».
È stato difficile per lei essere la figlia di Muhammad Ali?
«Io e mia sorella Leila abbiamo conosciuto un Muhammad Ali diverso rispetto a quello dei miei altri fratelli e sorelle. Ho dei ricordi molto belli e sereni di papà a casa. Mi diceva sempre che sarei dovuta crescere senza alcun tipo di privilegio legato al fatto di essere sua figlia».
Nessuna difficoltà ad avere un padre così popolare?
«No, assolutamente. Mi accompagnava a scuola, mi cucinava il pollo, mi pettinava. Veniva a prendermi a scuola e si interessava molto quando mi piaceva un ragazzino, tanto che di solito voleva andarlo subito a conoscere. E la cosa mi metteva molto in imbarazzo».
Colpisce nel documentario la tendenza di suo padre alla commozione. È qualcosa di lui che nessuno conosceva, vero?
«Verissimo. Una volta abbiamo dato un passaggio a un autostoppista che papà insistette molto ad accompagnare a casa perché gli ricordava il pugile Sugar Ray Robinson. Ci fermammo a un bancomat perché voleva dargli dei soldi ma l’uomo, fieramente, li rifiutò. Quando lo salutammo vidi mio padre piangere come un bambino. Chi ha avuto la fortuna di conoscerlo da vicino, sa bene quanto sia umile. A volte si stupisce ancora che qualcuno si ricordi di lui. Solo una persona che si sente così parte del popolo, può diventare un eroe del popolo».