la Repubblica, 11 novembre 2014
Eliminare il Califfo per far crollare l’Isis, ecco la strategia degli Stati Uniti. Gli ex ufficiali di Saddam sono i più alti in grado, ma senza un leader carismatico sarebbe difficile tenere insieme l’organizzazione
Durante i primi anni del conflitto in Iraq gli aerei Usa sorvolavano la zona occidentale del Paese in cerca di obiettivi occasionali, distruggendo in diverse occasioni i convogli che attraversano di gran carriera il deserto diretti in Giordania o in Siria. Ogni volta a Washington giungeva immediatamente la notizia che Saddam Hussein, all’epoca most wanted, era stato forse ucciso. Quei rapporti si sbagliavano immancabilmente. Saddam alla fine fu trovato nascosto nei pressi di Tikrit, sua città natale – localizzato nel dicembre del 2003 dopo una minuziosa, intensa opera di intelligence che fornì un’immagine dettagliata delle reti sociali e tribali.
Tre anni più tardi gli aerei sganciarono degli ordigni imponenti su una fattoria a nordovest di Baghdad, uccidendo Abu Musab Al Zarqawi, il violento leader di Al Qaeda in Iraq, l’entità che negli anni si è trasformata in quello che oggi è lo Stato Islamico. Anch’egli era stato individuato grazie a una meticolosa attività di intelligence, coadiuvata da un intenso ciclo di raid compiuti a terra dalle forze speciali Usa. Cinque anni dopo è toccato a Osama Bin Laden in persona, ucciso all’interno di un’abitazione dell’Iraq settentrionale nel corso di un’operazione che ha rappresentato il culmine di una delle cacce all’uomo più durature e costose della storia, tale da richiesto un dispiegamento di uomini senza pari.
Questa settimana gli analisti stanno cercando di stabilire se Abu Bakr Al Baghdadi, autoproclamatosi califfo e capo dell’Is, sia stato ucciso venerdì scorso durante un attacco aereo. L’operazione sembra essere stata il frutto di un attacco opportunistico lanciato contro un convoglio che attraversava il deserto. Una circostanza tragicamente simile a quelle dei primi, maldestri giorni di oltre un decennio fa, anziché una missione basata, come accaduto in tempi più recenti, sugli sforzi dell’intelligence. Nessuna rete di spie a terra, né raid compiuti da forze speciali; nessuna chiara idea circa le abitudini o persino i trascorsi dell’uomo che ne è il principale obiettivo. Forse a rimanere ucciso è stato un assistente, mentre Al Baghdadi è solo ferito. Per l’Is non sarebbe facile evitare che la notizia della morte del leader si diffondesse. Probabilmente è ancora vivo.
Cosa accadrebbe però se così non fosse?
La storia ci fornisce qualche indicazione. La cattura di Saddam Hussein all’epoca ebbe un impatto limitato sull’evolversi dell’insurrezione in Iraq, che più che nella figura dell’ex dittatore era profondamente radicata nell’alienazione conosciuta dalla minoranza sunnita in Iraq dopo l’invasione.
L’eliminazione di Al Zarqawi ebbe invece delle conseguenze. Tra il 2006 e il 2010 Al Qaeda in Iraq ha conosciuto un rapido declino – dovuto in parte al risveglio sunnita, in parte al declino della guerra civile e ad altri fattori. Ma la scomparsa dell’ex delinquente comune giordano ha però avuto un suo peso. Anche l’uccisione di Bin Laden è stata un elemento chiave nella crescente marginalizzazione di Al Qaeda, un gruppo che rispetto al passato oggi è innegabilmente l’ombra di se stesso. Il suo successore, Ayman Al Zawahiri, pur dotato di visione strategica e capacità organizzative, è tuttavia privo di carisma, o quanto meno dell’abilità di comprendere che nel rapido mondo della comunicazione di oggi, i sermoni di cinquantacinque minuti semplicemente non funzionano.
Esistono altri esempi di leader militanti che in anni recenti sono stati “neutralizzati”. Hakimullah Mehsud, capo della coalizione ribelle dei talebani pachistani è stato ucciso lo scorso anno da un missile lanciato da un drone. Ahmed Abdi Godane, fondatore del movimento somalo di Al Shabab, è morto a settembre, ucciso anche lui da un drone. In tutte queste circostanze, ad eccezione del caso di Saddam, l’eliminazione del leader ha scatenato divisioni e discordia interne. I talebani pachistani si stanno disgregando, e probabilmente lo stesso accadrebbe all’Is se Al Baghdadi venisse tolto di mezzo.
Lo Stato Islamico è strutturato in base a delle linee ben note ai baatisti iracheni della vecchia scuola. E ciò non deve sorprendere, se si pensa che i due vice di Al Baghdadi, Abu Ali Al Anbari e Abu Muslim al Turkmani, sono infatti ex ufficiali dell’esercito iracheno che prestarono servizio sotto Saddam Hussein. Sono responsabili, rispettivamente, della Siria e dell’Iraq. Dei due Al Anbari è il più anziano, colui che probabilmente succederebbe al califfo se questi venisse ucciso.
Al di sotto di questi due ci sono però circa due dozzine di ufficiali, che esercitano complessivamente la propria autorità su un proto-Stato che ha la stessa estensione di uno Stato europeo medio, conta circa sei milioni di abitanti e ha un gettito che si stima si aggiri attorno a diversi milioni di dollari al giorno. Tenere insieme tutti questi individui richiederebbe abilità, determinazione e fortuna, in particolare quando si dispone di fondi cospicui. Il sistema concentra il potere nelle mani del leader generale. Quando questo viene meno, gli altri si scontrano per diventare primus inter pares.
Inoltre l’Is è strutturato per la crescita – non il consolidamento – territoriale. Il suo principale obiettivo strategico è baqiyya wa tatamaddad ( restare ed espandersi). Se l’espansione si arresta, o perde addirittura terreno, molti di coloro che sono saltati sulla carovana dell’Is l’abbandonerebbero al volo. Il nucleo di uno Stato Islamico potrà forse restare intatto – magari nei pressi di Raqqa, l’attuale capitale, o nelle regioni di confine a ovest di Mosul – ma il resto si sgretolerebbe.
Ciò porterebbe nuove sfide – le organizzazioni estremiste hanno l’abitudine di lanciare attacchi vieppiù ambiziosi quando le diverse fazioni interne rivaleggiano per conquistare la supremazia – ma nel complesso sarebbe una buona cosa. I singoli gruppi potrebbero essere eliminati uno ad uno con maggiore facilità, e le comunità locali cercherebbero protettori altrove. Jubhat Al Nusra, problematico affiliato di Al Qaeda, potrebbe essere affrontato più agevolmente, così come i gruppi che oggi minacciano direttamente l’Occidente.
Naturalmente esiste anche la possibilità che Al Baghdadi venga sostituito da qualcuno più competente e carismatico. La panchina dell’Is non sembra però ospitare simili candidati. Benché le probabilità che Al Baghdadi viva ancora per molti anni sono scarse, esiste tuttavia un fattore storico che induce a trattenere l’ottimismo. Tutti i leader morti che ho citato sono stati uccisi quando le loro organizzazioni erano già indebolite. La loro morte ha dunque segnato la fine, e non l’inizio, di un processo di declino. L’ascesa dell’Is sembra aver subito un rallentamento, ma nulla lascia supporre che la rotta sia stata invertita, o che lo sarà prima di molti mesi, forse addirittura anni.
(traduzione di Marzia Porta)