La Stampa, 11 novembre 2014
Sette domande per capire cosa sta succedendo in Catalogna. Dal flop della consultazione alle elezioni anticipate
1) Per cosa si è votato domenica in Catalogna?
Oltre sei milioni di cittadini, includendo i maggiori di 16 anni (per la legge elettorale spagnola si può votare solo a 18 anni) e i 900 mila stranieri residenti nella regione – ossia un milione in più del censo elettorale legale – hanno potuto recarsi alle «urne» per rispondere a una «consultazione partecipativa» che in un’unica scheda proponeva due quesiti: «Vuole che la Catalogna sia uno Stato?» e «Se sì, vuole che questo Stato sia indipendente?». Non c’erano censo, autorità elettorale, garanzie nel conteggio dei voti, cabine. L’organizzazione è stata affidata a 40 mila volontari, tutti separatisti.
2) Perché una «consultazione partecipativa» e non un referendum?
Il parlamento catalano aveva chiesto al parlamento di Madrid la potestà di convocare un referendum indipendentista che in Spagna, Costituzione alla mano, può essere convocato solo dal governo centrale dopo il placet delle Cortes. Bocciata la richiesta, il parlamento catalano ha approvato a larga maggioranza( l’80%) una legge regionale ad hoc e convocato un referendum per il 9 novembre. Il governo popolare del premier Mariano Rajoy, appoggiato dal principale partito di opposizione, l’ha impugnato presso la Corte Costituzionale, che l’ha sospeso. Allora il presidente regionale Mas si è inventato una «consultazione partecipativa» che lasciava spazio ad associazioni separatiste, ma che poi ha organizzato in prima persona.
3) Gli indipendentisti hanno vinto?
No. Stando ai risultati «ufficiali» comunicati ieri pomeriggio, hanno votato solo 2.305.290 persone, con una affluenza alle urne del 35,9% degli aventi diritto. Il «doppio sì», cioè anche all’indipendenza, ha ottenuto l’80,76%, quindi 1.861.753 di voti, cioè il 33,45% del totale degli aventi diritto.
4) Che cosa rischia ora il governo catalano?
Il governo di Mas ha pubblicizzato la votazione con spot istituzionali, ha messo a disposizione i locali per «votare», ha prodotto le schede scaricabili dal suo sito e ha persino annunciato i risultati. I reati sono tre: disobbedienza alla Corte Costituzionale, abuso di potere e sperpero di denaro pubblico.
5) Che cosa succederà adesso?
Mas non molla. La «consultazione partecipativa» è stato un flop numerico, ma anche una gigantesca campagna pubblicitaria a favore dell’addio alla Spagna e della sua leadership. Il presidente regionale ha già detto che il referendum definitivo saranno le elezioni anticipate, con una sola lista che raggruppi tutti i separatisti (la sua CiU, l’alleato esterno Erc e la Cup), che adesso hanno la maggioranza nel parlamentino di Barcellona e che, stando ai sondaggi, l’otterranno di nuovo. Poi dichiarerà unilateralmente l’indipendenza, una nuova sfida tra legalità (le leggi di Madrid) e legittimità (i voti dei catalani).
6) È possibile che Madrid e Barcellona si mettano d’accordo?
Con l’attuale governo centrale, no. Rajoy, che ha la maggioranza assoluta alle Cortes, non parla neppure di riforma costituzionale per trasformare la Spagna in uno Stato confederale, come invece propone il leader socialista, Sánchez.
7) Ci guadagnerebbe la Catalogna a essere uno Stato Indipendente?
Economicamente no. La regione uscirebbe dall’Unione europea, dall’euro, non sarebbe più protetta dalla Bce e il suo spread balzerebbe alle stelle con un deficit di 57 miliardi di euro, cioè il 29,9% del suo Pil (che è il 19% di quello spagnolo), e non saprebbe più come finanziarsi.