la Repubblica, 11 novembre 2014
Prima regola: non candidarsi. Consigli di Paolo Cirino Pomicino per chi aspira al Quirinale. «Devono gli altri a sceglierti: se ti autocandidi sei spacciato. Il candidato, più silenzioso sta e più chances ha di farcela. Poi devo dire che rispetto al passato il numero dei candidabili si è pesantemente ridotto. Vent’anni di partiti personali hanno desertificato la pluralità leaderistica che c’era nella Prima Repubblica»
Quando si parla di battaglie parlamentari per il Quirinale spunta sempre fuori il suo nome, Paolo Cirino Pomicino. Lei che ne ha combattute tante, quale consiglio darebbe all’aspirante presidente?
«Di non candidarsi. Devono gli altri a sceglierti: se ti autocandidi sei spacciato. Il candidato, più silenzioso sta e più chances ha di farcela. Primo. Secondo, devo dire che rispetto al passato il numero dei candidabili si è pesantemente ridotto. Vent’anni di partiti personali hanno desertificato la pluralità leaderistica che c’era nella Prima Repubblica. Allora c’era un certo numero di personaggi che potevano legittimamente aspirare alla carica di Capo dello Stato. Oggi non è così, è un dato di fatto».
A chi tocca fare la prima mossa?
«Al partito di maggioranza relativa. Ma bisogna vedere se quel partito è compatto oppure no. Quando la Dc lo fu, nel 1985, riuscì a offrire agli altri partiti un solo candidato, Cossiga, che fu eletto al primo scrutinio».
Sette anni dopo però non ci riuscì. La Dc propose Forlani, che il giorno dopo fu clamorosamente bocciato. Anche perché voi andreottiani non lo votaste. Non andò così?
«Quella storia va raccontata bene». Nessuno la conosce meglio di lei.
«Io ebbi la fortuna, pochi giorni prima delle votazioni, di trovarmi da solo con Andreotti e Forlani. E scherzando dissi: ragazzi, voi vi dovete mettere d’accordo. Andreotti rispose: “No, se il candidato è Arnaldo, la mia candidatura non c’è”. E Forlani ripetè: “Se il candidato è Giulio, la mia candidatura non c’è”. Voleva dire che tutti e due si candidavano. Alla fine Forlani andò nello studio di Andreotti per dirgli che lo avrebbe appoggiato, ma un’ora dopo Enzo Scotti mi chiamò a Palazzo Chigi per informarmi che i dorotei avevano deciso altrimenti: volevano Forlani. Poi le cose andarono come andarono».
Andarono che voi andreottiani non votaste per Forlani.
«Solo nella prima votazione. Ma l’errore della Dc fu quello di decidere tutto all’ultimo momento, e in quel modo».
E oggi, secondo lei, Renzi potrebbe riuscire a fare quello che riuscì a De Mita con Cossiga e a Veltroni con Ciampi?
«È possibile. Ma è ovvio che può muoversi solo nel momento in cui Napolitano rende ufficiali le sue dimissioni, altrimenti è una tela di Penelope».
Ma dopo l’esperienza dell’anno scorso, come può Renzi trattare con chi non controlla i voti dei suoi gruppi? E come può evitare che nel Pd ci sia un’altra fronda dei 101?
«L’operazione può riuscire solo se il Pd non pensa di imporre lui un nome, come capita spesso di questi tempi. Se il Pd ha la pazienza di ragionare innanzitutto con i propri alleati, e quindi con l’opposizione, ascoltando tutti e proponendo un nome solo alla fine di questo percorso, una maggioranza ampia è possibile. Qualcuno certo si chiamerà fuori, ma si può sperare di eleggere il presidente alla prima votazione».
Chi sarà il prossimo presidente, secondo lei? È possibile che dopo un ex comunista tocchi a un ex democristiano?
«Lo spero proprio».
Pier Ferdinando Casini, per esempio?
Pomicino tace. Poi sussurra, malizioso: «Ha sentito il mio silenzio assordante?».