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 2014  novembre 11 Martedì calendario

«Una vittoria a metà. Loro non sono imbattibili, ora spero che questo sia anche un passo verso la mia liberazione» dice Roberto Saviano dopo la sentenza che ha condannato l’avvocato ma non i due boss dei Casalesi per le minacce di morte all’autore di Gomorra

«Avevano terrore di quel racconto e cercavano di fermarlo con le minacce». C’è una sentenza che lo certifica, ora. E un confine tracciato a tutela di chi scrive e denuncia. «Loro non sono imbattibili, ora spero che questo sia anche un passo verso la mia liberazione», dice Roberto Saviano. Loro, i casalesi. Che però non vengono messi a nudo, ma appena scalfiti da un verdetto contraddittorio. È anche una giustizia amara, «una vittoria a metà», aggiunge lucido l’autore di Gomorra e Zerozerozero. «L’assoluzione di due capimafia di quel calibro lascia troppi interrogativi aperti – ragiona lo scrittore – Un avvocato considerato al servizio del clan e da oggi condannato, come Santonastaso, a nome di chi avrebbe lanciato quelle minacce di natura mafiosa se i due padrini sono prosciolti?».
 Il suo cellulare è bollente. I primi a scrivergli sono cittadini, lettori italiani e stranieri, gli inviati di The Guardian, Wall Street, Die Zeit. Poi fioccano messaggi di sostegno o incredulità di intellettuali e politici, arriva anche l’sms e «l’abbraccio forte» del premier, Matteo Renzi. «Avevano usato un processo per indicare i nemici dei boss a chi stava fuori», ripete. Come se tornasse ogni volta a misurare i suoi demoni, la vita che impongono, il prezzo che costano. E alla fine è con questo strano bagaglio, metà sollievo metà insoddisfazione, che vuole ripartire, tornare alla sua docenza a Princeton, New York, lasciarsi Napoli di nuovo alle spalle, una battaglia vinta in parte e Palazzo di Giustizia avvolto nel buio.
Saviano, una sentenza va rispettata sempre. E c’è un dato del tutto inedito: per la prima volta un’istanza di remissione viene elevata al ruolo di minaccia mafiosa.
«Difatti, da questo punto di vista è una sentenza epocale. Un dato fortissimo, oggettivo, emerge: viene utilizzato uno strumento processuale, in questo caso la legittima suspicione, per mandare un messaggio all’esterno».
Lo stesso verdetto assolve i due boss, Francesco Bidognetti, ergastolano al 41 bis e Antonio Iovine, il Ninno ormai pentito. Eppure, nel marzo 2008, mentre l’istanza ve- niva letta in Corte d’assise d‘Appello, Iovine era latitante, ma il boss Bidognetti era detenuto e collegato con l’aula. E non ne prese le distanze, tutt’altro. Come lo spiega?
«La contraddizione appare subito. Resta una domanda gigantesca: inevasa. Se la Corte ora dichiara che un avvocato fa minacce per conto del clan, chi sono gli uomini del clan che l’hanno ordinato? Davvero un avvocato, considerato uomo di camorra in questa sentenza, fa una minaccia e può non rendere conto ai capi? Mi sembra tutto molto strano».
Di questi due anni di processo, resta un altro elemento: le parti offese, lei e la Capacchione, siete stati processati dai difensori dei boss.
«La solitudine l’ho sentita, sì, era enorme, dentro il processo. Era evidente a un certo punto che l’obiettivo di alcuni fosse processare me. Da una parte ne sono anche orgoglioso, perché una parte di Paese che ha taciuto, è stata omertosa, connivente, ha taciuto, e si sente messa in difficoltà dalle mie parole. Ma poi una volta uscito da quell’aula ho sentito un calore enorme, specie sui social. Ora da scrittore, e cittadino, colpiscono le reazioni che raccolgo: all’estero soprattutto stupisce l’accostamento tra assoluzione e boss».
Perché a caldo ha definito i boss assolti, “guappi di cartone”? Sembra che li provochi.

«Ho usato un’immagine del gergo. Mi sono sembrati guappi di cartone, i due padrini si sono raccontati come potentissimi ma poi si sono andati a nascondere dietro l’avvocato, dando a lui tutta la responsabilità dell’operazione».
Quando cominciava questo processo sia Iovine sia Setola erano due irriducibili. Oggi sono, con qualità diverse, aspiranti pentiti. Questo è anche un risultato dell’azione suscitata da Gomorra?
«Sembra incredibile ma le parole possono provocare anche questo. Raccontare queste storie ha fatto esplodere l’attenzione mondiale verso questi fenomeni, certo conosciuti e raccontati. E ora la mia paura è esattamente il contrario. Che si dica: ok, tutto risolto, archiviato, invece i problemi restano enormi, il loro potere continua a essere forte. In aula, per esempio, quelli che dovevamo essere protetti sembravamo noi, e i vincenti erano loro, in qualche modo. Mi è bastato vedere il boss Bidognetti, collegato in videoconferenza. Loro pensano di essere ancora il potere».
I risultati ci sono stati, nell’azione di contrasto. Ma spesso alla repressione non sono seguite azioni di politica e di prevenzione contro il reclutamento del crimine.
«Difatti io vedo soddisfazione e entusiasmo, ma anche l’entusiasmo del governo mi sembra troppo precoce. Vero è che molto cambiato, società civile e giornalisti e associazioni abbiamo fatto tutti passi avanti. Ma il traguardo è ancora lontano».