Corriere della Sera, 11 novembre 2014
È giusto chiudere il Cnel? Quando fu concepito non era affatto un ente inutile, lo è diventato col tempo. Nelle intenzioni dei costituenti, avrebbe avuto due utili funzioni: coinvolgere il mondo del lavoro nella preparazione delle leggi che dovevano regolare la materia e sottrarre le discussioni economiche ai condizionamenti di una classe politica che pensa alle prossime elezioni più di quanto pensi al bene del Paese
Enti inutili ne esistono sin troppi e i tagli di questi sono quanto meno opportuni e necessari. Chiudendo però il Cnel, organo consultivo nell’ambito dell’economia e del lavoro, non ritiene questa una operazione inutile quanto dannosa poiché provocherà effetti negativi proprio in due settori di particolare importanza e rilevanza?
Nicodemo Settembrini
neda.r@alice.it
Caro Settembrini,
Nelle intenzioni dei costituenti, il Cnel avrebbe avuto due utili funzioni. In primo luogo avrebbe coinvolto il mondo del lavoro – imprenditori, sindacati, giuslavoristi – nella preparazione delle leggi che dovevano regolare la materia. In secondo luogo avrebbe parzialmente sottratto le discussioni economiche ai condizionamenti di una classe politica che pensa alle prossime elezioni più di quanto pensi al bene del Paese. Come altri organismi analoghi creati fra le due guerre (quello della Repubblica di Weimar, per esempio) il Cnel era figlio di quei movimenti politici, democratici o autoritari, che cercavano una «terza via» fra il capitalismo e il comunismo. Nell’Italia fascista la Camera dei fasci e delle corporazioni aveva sostituito la Camera dei deputati. Nell’Italia democratica il Cnel, sempre nelle intenzioni dei costituenti, avrebbe lavorato con il Parlamento lasciando beninteso agli eletti del popolo, su tutte le questioni, l’ultima parola.
Le cose, in realtà, andarono molto diversamente. Perché le Camere approvassero la legge sul funzionamento del Cnel ci vollero dieci anni. Ai partiti non piaceva, evidentemente, l’esistenza di una terza Camera, dotata della capacità di orientare il dibattito sulla politica economica e sociale del Paese. Quando pronunciò il suo primo discorso, il presidente del Cnel, Meuccio Ruini (un vecchio e rispettato uomo di Stato che aveva presieduto la Commissione dei 75 per la redazione del testo costituzionale), disse che il suo primo obiettivo sarebbe stata l’attuazione dei principi sanciti negli articoli 39 e 40 della Carta. Il primo dice tra l’atro: «Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali secondo le norme di legge. È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica». Il secondo, ancora più laconicamente, dice: «Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano». Troppo poco perché quelle norme bastassero da sole a regolare la materia. Ma ai sindacati non piaceva l’idea di dovere adattare i loro statuti e la loro azione a regole decise al di fuori della loro casa.
Non basta, caro Settembrini. Dagli anni Settanta in poi i governi hanno preferito scavalcare il Cnel per intendersi direttamente con le organizzazioni sindacali nel corso di incontri a Palazzo Chigi. Si chiama concertazione, ma dovrebbe chiamarsi piuttosto condominio ed è uno dei fattori che hanno progressivamente eroso l’autorità del potere esecutivo e di quello legislativo. A chi osservasse che la concertazione ci ha risparmiato la lotta di classe, risponderei che i sindacati non hanno mai rinunciato allo sciopero generale e, comunque, che lo sciopero, per un Paese democratico, è meglio del condominio.
Non ho alcuna nostalgia per il Cnel. Ma non era, quando fu concepito, un ente inutile.