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 2014  novembre 11 Martedì calendario

Un porno eticamente corretto è possibile? La fondatrice del sito Dreams of spanking (più o meno: sculacciate da sogno) realizza video in cui la punizione è sempre motivata (l’inquilina ha dimenticato di sfamare il gatto della padrona di casa) e le scene sono realistiche, come se fosse qualcosa di realmente accaduto e non girato per compiacere uno spettatore. È l’ultima frontiera di un fenomeno che tocca tutti i consumi: cibo che rispetta uomo e animali, finanza “buona”, abiti ecologici. È il marketing dell’autoassoluzione?

Il dubbio “sacro-profano” è questo: può esistere un’etica del porno o, piuttosto, siamo alla pornografia dell’etica? Nasce scoprendo che oltre a un modo “moralmente corretto” di cibarsi, vestirsi e investire, ne esisterebbe anche uno riguardante la realizzazione e diffusione di immagini o video sessualmente espliciti. Ci si chiede allora se un’estensione del codice etico alle più svariate attività, dalla preparazione del tiramisù allo spiumamento delle oche fino alla copula in telecamera sia un trionfo della morale che conquista e governa ogni campo o una sua sconfitta per svilimento, giacché allargandone i confini, come una sfoglia troppo tirata, diventa trasparente e si
spezza.
Partiamo dall’ultimo caso: l’etica del porno.
Se ne è occupato il quotidiano inglese The Guardian, dando voce, tra gli altri, alla fondatrice del sito Dreams of spanking (più o meno: sculacciate da sogno). L’aspetto morale dei suoi video sarebbe garantito da alcuni fattori: la punizione è sempre motivata (l’inquilina ha dimenticato di sfamare il gatto della padrona di casa) e le scene sono realistiche, come se fosse qualcosa di realmente accaduto e non girato per compiacere uno spettatore. Si tratta, come lei stessa definisce, di «una nicchia nella nicchia», ma il fenomeno è più diffuso. Esiste addirittura un movimento chiamato Ethical porn. Ha tre parole d’ordine, come la rivoluzione francese: qualità, trasparenza, consenso. Pretende che chiunque appaia mentre fa sesso sia consapevole, maggiorenne, coperto, anche, dalla previdenza sociale e che goda, pure, di diritti. Il fruitore deve sentirsi garantito giacché, questo è lo slogan, «ogni fantasia è legittima». Pertanto chiunque deve poter liberamente vedere quel che desidera anche se poi non lo metterebbe in pratica, o forse proprio per evitare che questo accada. È evidente il tentativo di smarcarsi dall’accusa secondo cui ogni forma di pornografia si basa sullo sfruttamento soprattutto, se non esclusivamente, del genere femminile. L’intento è quello di riuscirci offrendo un prodotto più soft, con una qualche trama, in definitiva, come qualcuno ha sintetizzato: girato da una regista donna. Che possa riuscire è improbabile, per molti motivi. Il successo del porno è dato proprio dal superamento dell’ordinario in ogni possibile forma e misura. Le sue variazioni sul tema tendono all’infinito: esiste un sito che contiene 500 categorie di pratiche filmate, più di quante Woody Allen oserebbe immaginarne. Le giovani generazioni, anche femminili, preferiscono l’estremo al controllato. E, non da ultimo, tra gli appassionati molti pensano che il porno etico sia una trovata di marketing degli stessi studio che forniscono il prodotto regolare: un po’ come la versione light della stessa bibita. Quindi: un uso dell’etica (questo sì, osceno) a fini di lucro.
E qui il discorso si allarga quanto l’uso del termine. Esistono un modo di alimentarsi etico, un genere di abbigliamento etico, una forma di risparmio etico. Si stanno propagando, hanno testimonial, seguaci, successo. Rendono. Ai produttori e ai consumatori, sia pur in modo diverso. Nella gastronomia il vegano o il chilometro zero sono diventati marchi veri e propri. Orientano la scelta, garantiscono il prodotto, nobilitano la fruizione. Sono la versione laica dell’alimentazio- ne che segue pratiche religiose: la Kosher ebraica o la Halal musulmana. Il punto di partenza è sempre lo stesso: rivestire di un valore etico ciò che è semplicemente più sano per l’uomo e quindi garantisce la conservazione dell’individuo e della specie. I precetti morali, prima di diventare spirituali, sono spesso semplicemente pratici: se copri la pelle eviti il melanoma, se digiuni ogni tanto ti depuri. La loro applicazione genera ortodossia e spesso degenera nell’integralismo. Non mangiare animali è sano, è saggio, non può essere sacro.
Lo stesso vale per l’abbigliamento. Il vegano e l’ecologico sono diventati nicchie di mercato in espansione. Li promuovono personaggi famosi che talvolta, conquistati dalla causa, si convertono in produttori. La loro strada conduce a un bivio. Lo illustrò Livia Firth, moglie dell’attore Colin e attivista in favore della creazione di abiti “verdi”. Disse, in un’intervista a D di Repubblica : «O la moda è etica o è democratica». O il cachemire costa quattrocento euro, o ne costa quaranta, ma si desertificano le pianure della Mongolia con ripercussioni negative sull’ambiente e la popolazione. Se un paio di jeans costa così poco che tutti se lo possono permettere, probabilmente è stato prodotto in maniera iniqua. Le azioni di chi l’ha fatto non finiranno mai nel portafoglio di un fondo etico, manovrato dai gestori di una banca etica. Che è poi la frontiera più labile del moralmente corretto. Nell’ultimo turbolento anno finanziario investimenti di questo tipo hanno reso bene, ma resta la perplessità che l’aggettivo etico si possa affiancare a quel gran calderone di fantasie, aspettative, consumazioni che, molto più della cinematografia porno, è il mercato azionario. Quanto al gestore, sovviene il noto aforisma di Bertolt Brecht: «Che cosa è mai rapinare una banca in confronto al fondarne una?». Paradossale, certo, ma capace di dissuadere l’accoppiamento tra attività di lucro e morale. O almeno dal mettere in guardia chi si sente più buono a ogni bonifico.
Il sospetto, con tutto il rispetto per chi (e mi ci metto, in parte) segue regole anche nelle attività più ordinarie, è che la morale della favola stia altrove. Che esista un secondo intento, oltre a quello pragmatico e che la sua natura sia assolutoria. Ci abbuffiamo, ci abbigliamo, facciamo soldi, facciamo sesso (e/o guardiamo altri farlo). È in agguato il senso di colpa. Occorreva una diversificazione del prodotto, una nicchia che ci consentisse di soddisfare in modo legittimo appetiti, vanità, avidità. Desideri, per qualcuno peccati. Definire etico un certo modo di vestire o investire di fatto considera immorale il resto. Ogni posizione ha un significato, non sempre un senso. L’ex attrice americana Bree Olson vinse due premi: nel 2008 come pornostar dell’anno, nel 2011 come vegana dell’anno. Intervistata rivelò che le sarebbe piaciuto recitare nella serie tv True Blood. A scanso di accuse aggiunse: «Quei vampiri si mangiano tra loro, non toccano animali».