Affari & Finanza, 10 novembre 2014
Come salvare l’Ilva o Terni e piacere al mercato. Il modello della Cassa depositi e prestiti: testa pubblica e soldi privati. Vent’anni senza una politica industriale rischiano di far pagare un prezzo salato a una grossa fetta di Made in Italy
Palazzo Chigi ha detto sì. Sì a risorse “pubbliche” per restare nell’industria di base della siderurgia. Ha dato via libera alla Cassa depositi e prestiti di Franco Bassanini e Giovanni Gorno Tempini per studiare come intervenire per mantenere una quota di italianità nell’Ilva, oggi dei Riva, altrimenti destinata a finire in mani francoindiane, quelle del colosso globale dell’acciaio Arcelor-Mittal. Cdp è diventato il nostro Minotauro delle partite industrial-finanziarie: pubblico negli assetti istituzionali e nella maggioranza del capitale (l’80 per cento è del ministero dell’Economia, il 18,4 delle Fondazioni bancarie), privato negli strumenti operativi.
Sulla Cassa di Via Goito, e sul suo braccio operativo, il Fondo strategico italiano (80 per cento della Cdp e 20 per cento di Banca d’Italia) si stanno caricando fin troppe aspettative. Perché si naviga a vista e si improvvisa molto. E quando non si sa come uscire da un impasse si pensa alla Cdp, un processo che è diventato quasi un riflesso pavloviano, che travolge tutti: la politica, i sindacati, così come i rappresentanti delle imprese. Tutti sedotti – nel caso specifico della siderurgia – ad un ritorno all’”acciaio di Stato”, a una riedizione dell’Iri che non fu solo panettoni e inefficienze. Anche perché nessuno degli ultimi tre governi (Monti, Letta e Renzi) ha mai avuto la possibilità di preparare un vero programma (se mai ne avesse avuto intenzione) di politica industriale, in una versione più o meno light, più o meno legata alle dinamiche di mercato, dopo che nella stagione del centro destra anche solo parlare di politica industriale era come bestemmiare essendo stato assunto il libero mercato come luogo delle scelte ragionevoli. Almeno fino al crollo di Lehman Brothhers.
Certo – senza una via d’uscita concepita dalla Cdp insieme al governo – Taranto diverrebbe una provincia di un impero multinazionale. Questo è il punto, e questo è quel che vuole evitare Matteo Renzi. Non può essere il suo governo a rischiare di favorire un lento, inesorabile, percorso verso la deindustrializzazione, a cominciare dal Sud dell’Italia. D’altra parte si sta vedendo a Terni cosa significa oggi stare in periferia, subire le decisioni dettate da interessi prevalentemente geopolitici, quelli che mettono all’angolo la competizione basata su parametri di efficienza e qualità produttiva, mentre da tempo – nel caso specifico – il baricentro della produzione mondiale dell’acciaio si è spostato dalla vecchia Europa all’India, alla Cina, alla Russia e al Brasile. Perché – va detto – sia dall’Ilva di Taranto sia dalla fabbrica degli Acciai Speciali Terni escono produzioni di qualità. Non sono né l’uno né l’altro siti decotti. Dispongono di un’altissima qualità della manodopera. Non c’è bisogno dunque di rispolverare l’antica cultura della Gepi, questa volta. L’intervento di Cdp sarebbe di tutt’altra natura. Un po’ come è stato l’ingresso del Fondo Strategico in Ansaldo Energia. Un rilancio, non un salvataggio assistenziale. Eppure il rischio di sconfinamenti è grosso, concreto.
Gorno Tempini, davanti alla Commissione parlamentare, ha detto che la Cdp è interessata alla siderurgia che considera un settore strategico ma non ha svelato nulla sulle mosse possibili. Con quali strumenti? La Cdp direttamente o il Fondo Strategico che la Cassa controlla e che con i suoi 4,4 miliardi di rifornimento finanziario? Sono strategicamente due strumenti distinti. Ed è probabilmente il Fondo quello destinato a entrare in campo. Di certo, l’Ilva non ha più soldi: il pagamento degli stipendi di novembre è a rischio, le banche sono disposte a erogare la seconda tranche del prestito solo di fronte a un’offerta vincolante perché non considerano più sufficienti le manifestazioni di interesse, quelle degli indiani (alleati con il gruppo Marcegaglia) e quella di Arvedi (alleato con i brasiliani di Companhia siderurigica nacional). Si profila un braccio di ferro con vittime predestinate i dipendenti come già nel caso dell’Ast. Palazzo Chigi non ha alcuna intenzione, però, di sommare crisi occupazionali a crisi occupazionali. E poi se in Francia c’è una “legge Florange” (dal nome proprio di una regione dove venne chiuso uno stabilimento siderurgico) che impone la restituzione degli aiuti a chi acquista un’azienda ma non ne garantisce la continuità produttiva, l’Italia può osare di più a difesa dell’interesse nazionale. A Bruxelles non c’è solo il vincolo del 3 per cento che può essere superato se solo politicamente lo si vuole.
La partita dell’acciaio è, dunque, la più attuale. Ha riproposto la centralità della Cassa depositi al pari delle omonime casse in Francia e in Germania, le quali, però, dispongono (differenza non da poco sul piano della effettiva operatività strategica) di un numero di dipendenti assolutamente incomparabile: 500 la Cdp contro, per esempio, i 5.300 del gigante tedesco della Kfw. Oltreché di una forza finanziaria non paragonabile. La nostra Cdp, comunque, ha già mutato pelle da tempo: fa politica industriale direttamente sul terreno di gioco, per quanto molto “a spot”, continuando a erogare mutui agli enti locali attraverso le risorse (242 miliardi di raccolta ben remunerati) del risparmio postale. Irrora il sistema di liquidità indispensabile pari a circa due punti di Pil l’anno. Nell’ultimo triennio ha finanziato 83 mila piccole e medie imprese e finanziato sei miliardi di capitale per le società. Con la maxicedola da 1,5 miliardi arrivata dalla controllata Cdp Reti ha cominciato a diversificare le sue entrate. Per quanto Cdp viva nella costante contraddizione dell’essere un investitore paziente di lungo corso e un “raccoglitore” di risorse a breve, com’è la natura del risparmio postale. E viva nella costante inadeguatezza pure del suo patrimonio netto con impegni finanziari, di contro, in operazioni assai costose.
Cdp ha deciso di autoapplicarsi i parametri di Basilea III, la Banca d’Italia, pur non essendo nel caso soggetto vigilante, ha effettuato mesi fa – non per caso un’indagine conoscitiva data la delicatezza dei dossier aperti in Via Goito. Pochi dubbi che Cdp abbia bisogno di rafforzare il capitale proprio, come farebbe qualsiasi altra banca. Mentre, in attesa che decolli una nuova vera stagione di privatizzazioni, continua a “comprare” quote di società del Tesoro in dismissione: entro l’anno dovrebbe arrivare STMicroelectronics di cui Via XX settembre detiene una quota del 13,7 per cento pari a circa 650 milioni di euro.
L’asso in mano della Cdp si chiama allora Fondo strategico italiano, guidato da Maurizio Tamagnini. Nacque nel 2011, per volontà di Giulio Tremonti, per ostacolare (ma arrivò fuori tempo massimo) l’acquisizione di Parmalat da parte dei francesi di Lactalis. Il Fondo ha le risorse (l’obiettivo è di portare da 4,4 a 7 miliardi la sua disponibilità di capitale) e una strategia che, secondo Dario Di Vico nel suo “Cacciavite, robot e tablet”, scritto per il Mulino insieme a Gianfranco Viesti, «valorizza la specializzazione italiana con il made in Italy». Dunque non una politica industriale «pesante» sul modello francese, composta di settori strategici individuati e calati dall’alto, bensì un’azione svolta «on the road». Ma questo è coerente con un eventuale intervento nell’Ilva? Va detto: il Fondo, più realisticamente che la Cdp, entrerebbe nella cordata guidata da Arvedi, non direttamente in Ilva, visto che le regole di ingaggio dell’Fsi vietano ingressi in azienda con i conti disastrati. E ancora: chi decide le operazioni strategiche di politica industriale? Il governo con la Cdp in una discussione che non ha nulla di pubblico, dal momento che nei programmi degli ultimi governi c’è ben poco di strategia industriale, mentre è in gioco proprio un interesse nazionale? Le risposte, prima o poi, dovranno arrivare. Infine. Con quella che l’economista Luigi Guiso, professore all’”Einaudi Institute for economics and finance”, chiama «la foglia di fico», cioè la partecipazione delle Fondazioni bancarie, la Cdp opera come fosse un soggetto privato. Guiso insieme a Tito Boeri chiedono da tempo che le Fondazioni escano dalla Cdp. Innocenzo Cipolletta, presidente dell’Associazione italiana dei fondi di private equity (Aifi), propone la quotazione in Borsa della Cassa. Insomma è chiaro: al Minotauro non ci sono alternative, tanto più in questa fase di declino industriale nel quale l’Italia ha perso il 25 per cento della sua capacità produttiva, ma la sua doppiezza (un po’ pubblico, un po’ privato) è un’anomalia che potrebbe non reggere nel tempo lungo.