Affari & Finanza, 10 novembre 2014
Sono ormai un centinaio le imprese italiane che nell’ultimo decennio, con alcuni impianti, hanno risalito la corrente come salmoni. La loro è una silenziosa ondata di rimpatrio delle produzioni dai Paesi emergenti a basso costo verso Paesi avanzati, Italia inclusa, dal costo del lavoro più alto ma con competenze e talenti difficili da imitare
A fine settembre erano 4, l’anno scorso sono arrivate a 11, due anni fa a 12, nel 2009 erano 17. Sono ormai un centinaio le imprese italiane che nell’ultimo decennio, con alcuni impianti, hanno risalito la corrente come salmoni. La loro è una silenziosa ondata di rimpatrio delle produzioni dai Paesi emergenti a basso costo verso Paesi avanzati, Italia inclusa, dal costo del lavoro più alto ma con competenze e talenti difficili da imitare.
Fra i protagonisti del controesodo si contano marchi di moda e design come Tod’s, Prada, Piquadro, Ferragamo, Nannini, Natuzzi. Ma non ci sono solo quelli. Prysmian, leader mondiale nel settore dei cavi, sta decidendo di rafforzare gli investimenti in Europa e anche in Italia. Interpump nella meccanica ha ormai depotenziato l’attività nei suoi impianti cinesi per rafforzare proprio l’Italia.
È un movimento in direzione inversa rispetto a quello dell’epopea della globalizzazione, e in qualche modo ne contraddice la retorica segnando una seconda fase. L’erosione dei costi della manodopera per alcuni non ha mantenuto tutte le promesse di redditività. Le imprese-salmone, quelle che risalgono la corrente da Est verso Ovest e da Sud verso Nord del mondo, vogliono essere più vicine ai mercati, dipendere meno dall’imprevedibilità di sistemi politici opachi e lontani, pagare meno in assicurazione e trasporto. A questo punto costituiscono un fenomeno così diffuso da guadagnarsi un neologismo: “re-shoring” al posto dell’off-shoring verso l’Asia di vent’anni fa.
Non mancano le analisi – se ne parlerà giovedì a un convegno a Piazza Affari organizzato da Pambianco e Deutsche Bank – che mostrano una tendenza ormai comune a molti Paesi avanzati. Essa certo non riguarda solo l’Italia, eppure vorrà pur dire qualcosa se proprio le imprese italiane sono fra le principali protagoniste del grande rientro.
Secondo uno studio di Uni-Club, un gruppo di quattro atenei, il made in Italy è secondo dopo il sistema d’impresa americano per intensità del “re-shoring”. La Cina è il Paese dal quale rimpatriano più spesso; la moda è il settore più interessato dalla nuova tendenza: vi appartengono circa 40 del centinaio di imprese che negli ultimi dieci anni hanno deciso di rimpatriare. Ma anche meccanica e elettrotecnica sono presenti.
Fra le motivazioni portate dai manager, spiccano quelle che ricordano che anche un’economia matura ha un posto nella globalizzazione 2.0. Il costo del lavoro in Italia è sì elevato, ma non nella manifattura di alta qualità o nelle funzioni ad alto contenuto di competenza e cultura. Che il costo del cuneo fiscale è eccessivo, ma mai come l’imprevedibilità della Cina dove i salari sono ormai triplicati.
E il messaggio delle imprese-salmone è che l’Italia ha sì molti problemi, ma non ci sono scuse: prendersela con l’euro o Angela Merkel, per loro, è come andare alla carica contro i mulini a vento.