Affari & Finanza, 10 novembre 2014
«L’Europa dominata dai tedeschi? Può essere, purché non si prenda come parametro la composizione della Commissione, solo un’anatra zoppa». Intervista a Daniel Gros, presidente del Center for european policy studies
«L’Europa dominata dai tedeschi? Può essere, purché naturalmente non si prenda come parametro la composizione della Commissione dove di tedeschi non ce ne sono proprio. Però a questo punto è il caso di chiedersi perché l’Ue non riesce a “governare” nel senso più proprio del termine. Eppure sarebbe decisivo per ritrovare tutti insieme la via dello sviluppo». Daniel Gros, già consulente del Fondo Monetario e della stessa Commissione Ue, economista tedesco fra i più imparziali, ci tiene a riportare il dibattito verso i temi più costruttivi. Al primo posto, l’urgenza che l’Europa si doti di un esecutivo degno di tal nome.
Gros, il cui impegno quotidiano è quello di studiare con oggettività la realtà europea dall’osservatorio del Center for European Policy Studies, il think-tank di Bruxelles che dirige, non conferma fino in fondo l’immagine di un’Europa a trazione tedesca, ma soprattutto ritiene ozioso questo problema. Occorre, spiega, concentrarsi sulla necessità di un governo europeo in possesso di autentici poteri, il che andrebbe a vantaggio di tutti. «La Commissione di fatto conta pochissimo, ma ora perfino la Bce, l’unico organo veramente esecutivo, sembra paralizzata dai veti incrociati. Guardate cos’è successo l’altro giorno: la banca ha ritrovato l’unanimità ma solo perché si è trattato di non decidere nulla di concreto. Lo stesso Draghi non h potuto dire altro che lo staff “studierà” ulteriori misure monetarie, e ha fissato tutt’al più il plafond di esse, il famoso “trilione”. Come si farà per renderle operative, è un problema rinviato. Detto per inciso, in un’economia dove la maggior parte degli investimenti è finanziata con prestiti bancari, il quantitative easing avrebbe effetti limitati. E ho qualche dubbio, a meno che non sia di proporzioni davvero immani, anche sulla sua utilità contro la deflazione, che resta un problema gravissimo per i debitori ma un enorme beneficio per i creditori».
Torniamo alla Commissione, che dovrebbe essere l’organo “esecutivo” dell’Europa. Un po’ di arte di governo prova a farla: guardi l’imperiosità di Katainen, che non sarà tedesco ma della Germania interpreta la “filosofia” economica, quando ha mandato in tutta fretta due settimane fa – prima ancora di insediarsi – le lettere di ammonimento a Italia e Francia. Non si sono, questi due Paesi, affrettati a correggere le rispettive manovre?
«Appunto, questo dimostra quanto sostengo. Roma e Parigi hanno apportato in poche ore due ritocchi assolutamente marginali, 3,8 miliardi l’Italia e 4,5 la Francia, più o meno lo 0,2% del rispettivo Pil. Ed è bastato perché la Commissione prendesse tutto per buono e perfino il “superfalco” Katainen smettesse di fare la voce grossa. Nessuna procedura ulteriore è stata decisa, malgrado che i due Paesi siano in palese infrazione, la Francia per il deficit/Pil e l’Italia per il debito/Pil. Segno che la Commissione non conta nulla. Posso capire che il ministro tedesco Schauble si sia risentito per come sono andate le cose. Ha ragione Renzi quando dice che per acquietare Bruxelles sono bastati “pochi spiccioli”».
Se è per questo il premier italiano è anche convinto che la Commissione non sia altro che una “banda di burocrati”. Allora ha ragione?
«Di certo Bruxelles non ha un vero potere politico. Altrimenti andrebbe più a fondo nel perseguire il rispetto delle regole, che sono frutto – va ricordato di trattati firmati volontariamente da tutti i Paesi membri. Invece l’interpretazione e l’enforcement delle norme viene lasciato a una vaga e imponderabile trattativa fra i vari governi. Del resto, non è un problema di oggi. Nel 2003 furono i tedeschi, insieme ai francesi, a sfondare vistosamente il rapporto deficit/ Pil, e poterono farlo senza conseguenze sulla base di un’interpretazione “dinamica” del Patto di Stabilità, un’impostazione che si è rivelata quanto di più indefinito, e potenzialmente pericoloso, si possa immaginare. Ora c’è il problema del Fiscal Compact: l’Italia si sta auto-autorizzando a rinviare al 2017 o al 2018 il redde rationem sulla questione del debito, nella più totale noncuranza da parte di tutti».
Quest’incertezza del diritto comunitario taglia alla radice le speranze che dalla Commissione possa venire un input in favore di politiche più espansionistiche, quelle che chiedono i Paesi in difficoltà?
«Non bisogna impostarla sulle ideologie, altrimenti sì che Bruxelles diventa un covo di burocrati. Di fatto oggi tutto è affidato alla buona volontà di questo o quello Stato membro. Ma poi non è il caso di credere alla divisione troppo schematica “falchi” contro “colombe”, bisogna perlomeno osservare come ci sia una geografia variabile a seconda dell’argomento di cui si tratta con Paesi che cambiano schieramento a seconda delle opportunità. Per esempio, il Portogallo che ha fatto scelte coraggiose ora si schiera con i falchi. La Germania dal canto suo ha annunciato un piano di investimenti infrastrutturali da 10 miliardi per rilanciare la domanda aggregata. E non è semplice per Berlino varare progetti di questo tipo perché la massima parte della spesa pubblica non è governata a livello statale bensì di laender e di comuni, e convincerli a investire per il bene dell’Europa non è facile».
Insomma ognuno è europeista a modo suo. E i famosi e strapromessi 300 miliardi di Juncker?
«Macché, quelli sono solo un sogno. La Commissione di soldi ne ha pochissimi. Non ha un budget e non ha un governo. Può solo proporsi come “motore” per cercare intese fra i Paesi membri. Ma se si forma un’opposizione anche solo di alcuni Stati che pesano, l’unica cosa che può fare è prendere atto della volontà contraria e adeguarsi».