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 2014  novembre 10 Lunedì calendario

L’Irlanda rischia di non essere più il paradiso fiscale capace di attirare aziende da tutta Europa e America. Bruxelles passa all’attacco per far finire il sistema fiscale che garantisce tasse non superiori al 12,5% e possibilità di rendere esentasse i profitti

Chi di scappatoia fiscale ferisce, di scappatoia fiscale perisce. Può riassumersi così la paura che soffia all’improvviso sui verdi prati d’Irlanda. Per vent’anni l’Emerald Island, l’isola di smeraldo, come è chiamata per il colore delle sue campagne eternamente lucide di pioggia, ha offerto la tassazione più bassa d’Europa ad aziende di tutto il pianeta. Forse è esagerato sostenere che gli sgravi fiscali sono stati il motore del boom irlandese capace di trasformare una terra di emigranti e mangiatori di patate nella “tigre celtica” ma di certo hanno avuto un ruolo importante. Poi sono venuti il crack finanziario del 2008, una dura recessione che ha impoverito la stragrande maggioranza della popolazione, i fallimenti di banche e imprese, le requisizioni di case a inquilini impossibilitati a pagare il mutuo, insomma lo sboom economico e immobiliare.
Ma l’Irlanda si è tirata su le maniche, ha rimesso ordine nei suoi conti con una cura a base di severa austerity (e di generosi aiuti da parte dell’Unione Europea), e si è rimessa in piedi, anzi a correre, al punto da essere oggi uno dei paesi più sani della Ue. Ma la questione che ha portato Dublino sul banco degli imputati, con l’Unione nella parte del pubblico ministero, non sono il boom o lo sboom: sono le scappatoie fiscali che il governo irlandese ha a lungo consentito alle società straniere. Già l’aliquota sulla corporate tax al 12,5% è una delle più basse del continente. Ad essa si aggiunge quello che è chiamato il “double Irish”, evocando la potenza di un doppio whisky: la possibilità di ridurre – legalmente s’intende – le tasse sui profitti quasi a zero. Questo spiega perché i giganti della nuova economia digitale, dalla Apple a Google, da eBay fino alla potente Facebook, abbiamo scelto Dublino come quartier generale delle loro operazioni europee e internazionali, facendo dell’Isola di Smeraldo una seconda Silicon Valley. Senonché, mentre a Londra e in altre capitali esplodeva lo scandalo dei grandi del web che con miliardi di fatturato e centinaia di milioni di profitti pagano zero tasse o tasse inferiori all’1% grazie ai vantaggi fiscali garantiti loro dall’Irlanda, l’Unione Europea ha detto basta. Ed è riuscita a imporre al governo irlandese di cancellare il controverso “double Irish”.
È sullo sfondo di questo provvedimento che nei giorni scorsi si è tenuto a Dublino il quinto Web Summit, una conferenza annuale che ha contribuito non poco a dare all’Irlanda la reputazione di Silicon Valley d’Europa. Quest’anno vi hanno preso parte più di 2mila start-up tecnologiche, provenienti da più di 85 paesi. Il convegno è una via di mezzo tra la fiera e l’happening, tra il serissimo World Economic Forum di Davos e Bloomsday, il “giorno di Bloom” in cui ogni giugno i dublinesi celebrano James Joyce e il suo “Ulisse”. Ma stavolta i 20mila iscritti alla conferenza sono arrivati con una preoccupazione: è ancora vantaggioso fare base a Dublino? Il governo irlandese tenta di convincerli di sì, promettendo l’introduzione di nuovi regimi di tassazione, simili a scappatoie fiscali in vigore altrove (Gran Bretagna compresa), che consentirebbero alle società di nascondere per così dire i loro redditi in una sorta di “paradiso fiscale” autorizzato.
I dettagli dell’iniziativa non sono chiari e la sua approvazione deve ancora passare al vaglio di Bruxelles. Il risultato è che l’Irlanda sta attraversando un periodo di incertezza riguardo il proprio regime di tassazione e rischia di trovarsi improvvisamente in posizione di potenziale svantaggio davanti alla sempre più agguerrita concorrenza internazionale per accaparrarsi investimenti stranieri. La tendenza degli ultimi due decenni di globalizzazione è stata che, pur di attirare capitali e aziende straniere, un Paese dovrebbe rinunciare a estrarre qualunque tipo di imposte, o quasi, dai residenti esteri, che portano comunque posti di lavoro, dinamismo e indotto all’economia nazionale. Ora la Ue prova a ristabilire un principio di equità, perlomeno fra i suoi 28 paesi membri, in tale ambito. Ma l’Irlanda – che un tempo offriva tassazione zero perfino ad artisti, scrittori e cantanti purché prendessero la residenza a Dublino e dintorni – non è affatto compiaciuta all’idea di perdere lo status di paradiso off shore.
Quali che saranno le nuove scappatoie offerte dal governo irlandese, intanto il Web Summit ha tentato di rinnovare l’immagine di Silicon Valley europea per l’Emerald Island, invitando speaker che con le scappatoie non c’entrano nulla, come il cantante Bono e il calciatore Rio Ferdinando, in grado di trasmettere in qualche modo l’impressione di un happening degno del modello originale, la California.