la Repubblica, 10 novembre 2014
I 250 anni di Dei delitti e delle pene, l’opera di Beccaria che capovolse la legislazione giudiziaria dei suoi tempi
Si celebrano quest’anno i 250 anni dell’opera fondamentale di Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, che capovolse la legislazione giudiziaria dei suoi tempi. Ne segnò, anzi, un vero e proprio rivolgimento che dettava il principio per cui la determinazione di pene e delitti dovesse venir eseguita esclusivamente in base a un codice ben fatto e definito di leggi, nulla dovendosi lasciare all’arbitrio o all’influenza del giudice, che per essere uomo, poteva lasciarsi trascinare o influenzare dai propri istinti. Se abbiamo ricordato questo principio è perché immaginiamo che le celebrazioni di Beccaria diano adito a una serie di proposte, di riforme di legge e altre iniziative, da molti anni prementi invano all’ordine del giorno. Da ultimo la diatriba tra Berlusconi e i suoi avversari ha reso ancor più confusa e ingarbugliata la materia del contendere.Ad accavallare ancor più le cose è l’accedere al dibattito di consessi, associazioni, fondazioni ed altre confraternite che si illustrano per la bontà ma anche per il pluralismo dei loro intenti. Così il nostro approccio è avvenuto in modo piuttosto inconsueto, tramite il Comitato etico della Fondazione Umberto Veronesi che, oltre ad onorarci del suo invito alle molte iniziative di studi e formazione sulla sanità e l’oncologia in particolare, ha creduto opportuno coinvolgerci in altre tematiche, concernenti la riforma del sistema sanzionatorio penale, da lasciare in eredità viva alla prossima legislatura. Tra le personalità di maggior spicco figurano nella ricerca che verrà portata avanti nei prossimi mesi l’avvocato Paola Severino, ex Guardasigilli, il professor Antonio Gullo, la professoressa Cinzia Caporale, presidente del Comitato etico della Fondazione ed altri studiosi. Un decisivo impulso al processo di riforma è venuto dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che, condannando l’Italia per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione medesima, che vieta la tortura e i trattamenti inumani o degradanti, ha imposto all’opinione pubblica la revisione drastica dell’attuale sistema penale. Punto di arrivo dovrebbe essere l’abolizione del carcere come pena centrale della punizione. Una siffatta rivoluzionaria misura che metterebbe l’Italia alla pari con i paesi più avanzati, ben oltre l’introduzione di penalità sostitutive, sancirebbe una revisione complessiva dell’attuale sistema penale. “L’idea del diritto penale come extrema ratio di tutela riporta non solo alla necessità che l’arma tagliente della pena sia utilizzata, in ossequio al principio di sussidiarietà, esclusivamente laddove non vi siano alternative parimenti efficaci e meno onerose per l’individuo, ma al contempo, è una idea che dovrebbe permeare la scelta del legislatore nella selezione di quale strumento vada impiegato all’interno dell’arsenale sanzionatorio penale. Non solo dunque il diritto penale, ma ancor prima la stessa reclusione in carcere, e in generale la risposta detentiva, devono rappresentare l’ultima ratio” (P. Severino). Nel 2014 la faticosa approvazione di una legge delega ha aperto alla approvazione del Parlamento la formulazione di una legge che nei suoi criteri e principi è sensibile alla esigenza di ampliamento del catalogo delle pene principali a favore, tutte le volte che il giudizio positivo sul futuro comportamento del condannato lo consenta, di ancora nuove strategie sanzionatorie come pene principali. Comincia, perciò, a delinearsi un sistema che non ha più il carcere come fulcro ma che, per i casi di minore impatto lesivo, prevede una risposta non carceraria e che anche per i reati più gravi contempla la possibilità di evitare l’ingresso della persona in carcere. Rimarrà centrale, in sede di esecuzione della pena, la figura del giudice di sorveglianza, con una sempre maggiore specializzazione, nonché un possibile rafforzamento anche sotto il profilo organizzativo. In un paese per tanti versi arretrato che pur tuttavia vanta un numero relativamente basso (60 mila) di carcerati, un salto di questo genere rappresenterebbe un passaggio qualitativo dello sviluppo civile. Nel frattempo nominare un direttore del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria (Dap), misura che ritarda ormai da mesi, costituirebbe un passo più che doveroso.