Corriere della Sera, 10 novembre 2014
Oggi a Napoli la sentenza per i camorristi che, con le loro minacce, hanno costretto Roberto Saviano a una vita senza libertà
«Sentiamoci dopo per favore. Sto finendo un libro davvero pazzesco». La voce del magistrato era carica di quella febbre benedetta che coglie il lettore quando diventa ostaggio di un libro e non riesce a distogliere gli occhi dalle sue pagine. Era la primavera del 2006. Alla telefonata successiva la curiosità per quell’invidiabile stato di grazia aveva preso il sopravvento sulle ragioni del colloquio.
Il libro si chiamava Gomorra. Era uscito già da un mese, senza particolari riscontri. L’autore era Roberto Saviano, un giovane cronista ossessionato dalla camorra e dai suoi intrecci di potere che collaborava con alcune testate napoletane. L’Italia sarà anche un Paese distratto ma non ci volle molto perché le vendite di quell’opera cominciassero a lievitare. Ancora oggi pochi nella nostra categoria sono disposti ad ammettere che un giornalista agli inizi, sconosciuto ai più, ha scritto il libro che ogni giornalista sogna di scrivere prima o poi in vita sua.
C’è un prima e un dopo Gomorra. L’importanza storica di quelle pagine andrebbe ricordata anche oggi, soprattutto oggi, quando in un’aula del tribunale di Napoli si chiuderà il processo ai capi camorristi che con le loro minacce molto concrete obbligarono Saviano alle forche caudine di una vita senza più libertà. All’improvviso scoprimmo che esisteva una mafia pericolosa e invasiva quanto quella siciliana, della quale avevano parlato in pochi. Tra questi c’era anche una redattrice del Mattino, Rosaria Capacchione, anche lei così presa di mira dai boss di Casal di Principe da essere costretta a salire sulla scialuppa di una carriera politica, e chi la conosce sa quanto le sarebbe piaciuto andare avanti con il suo mestiere.
Il destino di Roberto Saviano è stato segnato da una maggiore solitudine, al punto da fargli rimpiangere più volte di aver scritto quel libro, dubbioso sul fatto che ne valesse la pena. La sua libertà evaporò nello spazio di pochi mesi, giusto il tempo di verificare la portata e l’aggressività delle minacce nei suoi confronti. Il ragazzo che girava in motorino e osservava da vicino la camorra è stato costretto a diventare altro, ad allontanarsi dalla sua ragione di vita. È stato obbligato a reinventarsi come persona, e ogni sua mossa diventava bersaglio di critiche e invidie, perché siamo il Paese che come ti muovi sbagli, dove il successo non ammette perdono.
L’ultima volta che capitò di incrociare il Saviano giornalista fu alla sentenza del processo Spartacus che nel giugno del 2008 condannò decine di boss casalesi, tra i quali i presunti ideatori del piano per uccidere l’autore di Gomorra. Era sotto scorta da ormai due anni. «Qui dentro» gli disse in aula un vecchio collega «sei l’unico ergastolano in libertà». Aveva ragione. Nel pomeriggio il semplice tentativo di prendere un caffè a Mergellina si rivelò un’impresa difficile e anche stressante. Il chiosco sul lungomare scelto per la sosta venne perquisito da cima a fondo. Le volanti arrivarono sgommando a sirene urlanti, gli agenti vigilarono sul tavolino all’aperto tenendo il dito sul grilletto della pistola. A quell’epoca Saviano non aveva ancora compiuto trent’anni. E in fondo poco importava che i pubblici ministeri lo ringraziassero, senza di lui il loro lavoro sarebbe stato molto più difficile. Non era vita, quella. In qualche modo i mafiosi Casalesi avevano ottenuto un risultato.
È passato molto tempo da allora. L’Italia è cambiata, ma non così tanto, purtroppo. La tendenza alla memoria corta è sempre scritta nel cromosoma nostrano. Allora forse è necessario ricordare come l’enorme successo di Gomorra abbia finalmente cambiato la nostra percezione sull’incidenza delle mafie nella società. Non più faccenda da confinare alle enclave più sfortunate d’Italia, ma questione nazionale capace di infiltrarsi e di condizionare l’economia dell’intero Paese. Non era un libro sui Casalesi, ma sul capitalismo letto attraverso la feritoia del loro potere.
La sentenza di Napoli segnerà una svolta nella vita dell’autore di un libro che, piaccia o non piaccia, ha segnato un’epoca. La scelta quasi obbligata di diventare personaggio pubblico e televisivo, le esternazioni, persino la serializzazione del marchio. C’è sempre l’occasione per discutere se la sua fu vera gloria. Che poi è un modo per guardare il dito e non la luna, magari ignorando, ancora una volta, le sue denunce su un rinnovato lassismo nella lotta alle mafie, conseguenza di un inabissamento che forse è solo ulteriore prova dell’adeguamento delle pratiche criminali alla modernità. Ognuno continuerà a pensarla come vuole sul conto di Roberto Saviano. Quel che oggi come allora sarebbe ingiusto negare è il suo contributo alla creazione di una coscienza collettiva sempre bisognosa di rinforzi e puntelli. Forse non per lui, che continua a scontare un esilio più o meno volontario. Ma per tutti gli altri Gomorra ne valeva la pena, eccome.