Corriere della Sera, 10 novembre 2014
Tra Isis e Shia. Ecco perché tutti temono il Califfato ma nessuno lo ha ancora fermato
Mi sembra che in Siria sia in atto una farsa: né i turchi né gli Stati Uniti e gli altri governi hanno davvero voluto fermare i terroristi, preferendo una pericolosa frammentazione politica alla stabilità della regione. Intanto le televisioni continuano a mostrare l’avanzata dei fanatici dell’Isis, dandogli un’immagine di invincibilità!
Francesco Welsch
Napoli
Caro Welsch,
La frammentazione e l’incoerenza che lei constata nella situazione mediorientale sono dovute principalmente al fatto che si stanno combattendo contemporaneamente, nella regione, guerre diverse. Per le democrazie occidentali e per gli Stati laici del Medio Oriente, il nemico è rappresentato dalle diverse componenti jihadiste della società musulmana, fra cui l’Isis (l’acronimo inglese di «Stato islamico dell’Iraq e della Siria») è oggi la più minacciosa. Per le monarchie e gli emirati sunniti del Golfo il principale nemico è la Shia, un antico ramo del grande albero musulmano che si considera vittima di una usurpazione dinastica, perpetrata dopo la morte di Maometto a danno dei suoi diretti discendenti. Gli Stati sunniti, come l’Arabia Saudita e il Qatar, temono l’Isis anche perché lo considerano un pericoloso concorrente sul piano religioso; ma non possono dimenticare che il movimento del «califfato» può essere un alleato utile, anche se inconfessabile, contro gli sciiti là dove hanno conquistato il potere: l’Iran degli ayatollah, l’Iraq dopo la sconfitta del sunnita Saddam Hussein, la Siria di Bashar Al Assad.
Le stesse considerazioni valgono per le comunità sunnite irachene nelle zone di cui l’Isis si è impadronito negli scorsi mesi. Non condividono il fanatismo religioso dei nuovi padroni, ma non dimenticano le discriminazioni subite durante il lungo governo del primo ministro sciita Al Maliki. Non tutti i simpatizzanti dell’Isis sono necessariamente fanatici. In un recente convegno organizzato a Milano dal Cipmo (il centro di studi fondato da Janiki Cingoli), uno studioso francese, Olivier Roy, ha ricordato che l’Isis ha potuto contare negli scorsi mesi su un certo patriottismo sunnita.
Queste non sono le sole contraddizioni della regione. Negli scorsi mesi il fronte anti-Isis non ha avuto la collaborazione della Turchia perché il presidente Erdogan è oggi particolarmente preoccupato dalla popolarità di cui i curdi godono nella società internazionale da quando sono diventati il più efficace baluardo contro il movimento del Califfato in Siria e in Iraq. Esiste infine, caro Welsch, una contraddizione americana. Barack Obama non ignora che la battaglia contro l’Isis avrà successo soltanto se condotta con la collaborazione dell’Iran e della Siria di Bashar Al Assad. Ma è costretto a farlo quasi clandestinamente (come sembrerebbe dimostrato da una sua recente lettera all’ayatollah a Khamenei) per evitare le critiche e le accuse che gli pioverebbero addosso nell’affollato mondo dei suoi avversari politici.