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 2014  novembre 10 Lunedì calendario

Così Michele Rech è diventato Zerocalcare: «Prima che i miei libri avessero successo ho fatto di tutto, compreso il doppiatore di documentari di caccia e pesca. Ma pagavano poco e quando parlavano di un animale che non conoscevo io dicevo sempre: “Cinghiale”»

«Anche se non lo disegno mai, pure io a volte sto di buon umore. Tipo quei giorni che quasi mi piglia bene pure lavorare. Mi siedo al computer, con la musica mia, e inizia la giornata». A vederlo, Michele Rech alias Zerocalcare, è difficile credere che quei momenti di buon umore ci siano davvero: lo incontriamo in un bar del Pigneto, quartiere della periferia romana ma già un po’ troppo fighetto per uno che viene da Rebibbia, dove ci sono soltanto un carcere e un mammuth (per i dettagli sul preistorico bestione leggetevi i libri di Zerocalcare).
Si siede e non ordina nulla, non abbassa neppure la zip del giubbotto Lonsdale nero, ci mette quindici minuti a sorridere la prima volta, gli occhi gli si accendono soltanto quando non parla di lavoro ma di centri sociali e manifestazioni. Eppure Zerocalcare è l’autore di fumetti più popolare d’Italia, la sua malinconica comicità molto romana e molto universale gli ha fatto vendere un numero di copie assurdo per un’editoria minimalista come quella delle nuvolette disegnate. Il suo ultimo libro, Dimentica il mio nome (Bao Publishing) è in classifica, la classifica vera, qualche posizione sotto Ken Follet.   
Zerocalcare, com’è cominciato tutto?   
«Da Formia. Con un’autoproduzione. Cioè, in realtà una produzione fatta da Makkox che ci ha creduto» (Makkox, per i pochi che non lo sanno, è un autore di satira a fumetti che pubblica sul Post, su Internazionale e collabora con la trasmissione Gazebo su Rai3, ndr).   
Quindi è merito di Makkox?
«Gli ho mandato tavole a una rivista che ruotava attorno a lui, il Canemucco. Durò poco. Poi lui mi ha suggerito di fare un libro, “La profezia dell’armadillo”. Era la fine del 2011. Per riuscire a venderlo Makkox mi ha convinto a fare un blog. Io ero superscettico. Ma lui mi ha comprato il dominio e poi mi ha costretto a iniziare. Ho postato le storie uscite sul Canemucco poi, quando la gente ha cominciato a commentarle, mi ha preso bene e ho iniziato a fare cose nuove».   
E come si vende un libro senza editore?   
«Grazie ai contatti di Makkox e in rete. Credo che Makkox abbia bloccato l’ufficio postale di Formia, ne avrà spediti 5mila. Io li portavo a qualche amichetto mio, al bar, in zona».   
Tuttora continuano a metterci 15 giorni a spedire quella edizione ormai storica, ancora disponibile. Però poi è arrivata una casa editrice vera, la Bao.
«Quando questa roba ha cominciato a crescere ho perso il controllo, non riuscivo più a gestire il conto vendita con le librerie. Trovo ancora nelle giacche invernali i bigliettini “Rebel Store, sei copie”».   
Copie mai pagate?  
«Eh no, perché in teoria dovevo tornare io a prendere i soldi a quelli cui avevo lasciato le copie. Ma come faccio ora, dopo due anni? Ci ho rimesso soldi, punti della patente, la salute. Mi ero ridotto a fare il facchino, sembravo uno spacciatore. Di libri».   
Ma che facevi prima, quando non eri ancora Zerocalcare?   
«Lavoravo per una società in subappalto di Alitalia, a Fiumicino. Cronometravo quanto tempo ci metteva la gente in fila ad arrivare al check in. Pensavo servisse ai viaggiatori per sapere a che ora arrivare in aeroporto, ingenuo, invece serviva a valutare l’efficienza di chi lavorava allo sportello. Poi ho lavorato in uno studio di animazione e, per pagarmi l’affitto, facevo traduzioni di documentari di caccia e pesca e davo ripetizioni di francese. Mia madre è francese».   
Caccia e pesca?   
«Lavoravo per un’agenzia che portava su canali tematici in Italia i documentari amatoriali di vecchi pescatori bretoni che dicevano cose come: “Che bella carpa!”. Io dovevo guardarli in VHS e segnare il minuto e il secondo esatto della battuta e trascriverla, i testi poi venivano usati per un doppiaggio. Ero pagato pochissimo quindi ogni volta che non sapevo un termine tecnico inventavo un sacco di cazzate. In quelli sulla caccia quando non capivo di che animale parlavano scrivevo sempre: “Cinghiale”. Si scoprono cose terribili: tipo che per cacciare una ghiandaia devi prendere un riccio, strappargli una zampa, così strilla e attira l’uccello».   
Da francofono avrai letto molti fumetti francesi. E un po’ si vede: tipo Boulet, autore di culto che sembra avere molto in comune con te.   
«Sì, ogni anno, dal 2011, vado al festival del fumetto di Angouleme, faccio la fila gli dico: “Guarda che io te lo dico prima che tu lo scopra da qualcun altro...”. Ma deve pensare che sono un mitomane. Adesso però i miei libri stanno uscendo in Francia, quindi dovrà accorgersi per forza che gli devo qualche idea».   
Stai cercando di non rimanere intrappolato nell’autore umoristico che racconta eterne adolescenze?   
«Posso pure continuare a fare cose divertenti. Ma vorrei che alcune cose della mia vita evolvessero. Per esempio non mangio più o plumcake. Sto diventando intollerante al latte e i plumcake li mangi nel latte. Anche se penso che se non sei disposto a star male per un alimento che ti piace non vali niente, quindi continuo».   
Da come ti racconti nei tuoi fumetti sembri un po’ ossessionato dalle serie tv americane.   
«Ne guardo parecchie, in effetti. Ci sono le serie di merda da guardare a batteria mentre lavoro, quelle un po’ più fighe ma senza elementi di tensione per il pranzo, quelle horror o un po’ più sofisticate per la sera. In queste settimane mentre lavoro guardo 24. Io devo concentrarmi mentre scrivo la storia, ma a disegnare mi annoio e una serie mi aiuta. Poi ci sono le serie da 20 minuti, tipo Big Bang Theory, che uso soltanto quando torno a casa alle 3 o alle 4 di notte e ho comunque bisogno di guardare qualcosa prima di dormire. Guardo tutto, perfino Grey’s Anatomy».   
E in qualche modo ti ha influenzato?   
«Immagino di sì. La scansione delle mie storie la immagino sempre con il ritmo di una serie tv».   
Abiti sempre a Rebibbia anche ora che sei un autore famoso?   
«Non ho mai fatto più di tre notti lontano da Rebibbia. Una volta è successo soltanto perché ero a Gaza. Rebibbia è un posto meraviglioso anche se tutti ne parlano solo per il carcere».  
E grazie a te per il mammut. Ma c’è davvero?   
«Ti giuro, mi hanno anche chiesto di disegnarlo su un murales proprio all’uscita della metro».  
Però ti toccherà girare l’Italia per presentare il libro.   
«Dall’uscita del libro a metà ottobre a dicembre ho diciassette presentazioni programmate. Ma se un giorno sono a Bologna e quello dopo a Reggio Emilia, alla sera torno comunque a Roma. A Rebibbia».   
Sui muri di Roma ci sono spesso manifesti disegnati da te, per qualche centro sociale o manifestazione. Sei un autore “impegnato”?   
«Il mio impegno non passa per i fumetti. Anche se qualche idea ce l’ho, come una scuola popolare di fumetto in uno spazio occupato. Non mi piace l’idea di uno che si sveglia la mattina e dice la sua. E non ho mai fatto vignette per i quotidiani, non mi va l’idea che escano magari a fianco di un editoriale che chiede di tenere in carcere i miei amici».   
Ci vai alle manifestazioni?   
«È un riflesso pavloviano».