Affari&Finanza, 10 novembre 2014
L’Europa è guidata dai tedeschi. La Germania ha piazzato i suoi uomini di fiducia (quasi sempre organici al partito della Merkel) in tutti i gangli vitali della macchina europea. Da Uwe Corsepius, segretario generale del Consiglio, a Klaus Welle, segretario generale del Parlamento; da Martin Schulz, presidente del Parlamento, a Martin Selmayro, capo di gabinetto del presidente della Commissione Juncker
Bruxelles 0 049 30 18 27 22 720: Henry Kissinger, che si chiedeva quale fosse il numero di telefono dell’Europa, oggi avrebbe una risposta. Il numero è questo. Peccato che non abbia il prefisso di Bruxelles ma di Berlino. È da qui, infatti, dal palazzo di vetro e cemento bianco della Cancelleria, che di fatto si governano i destini di cinquecento milioni di cittadini europei, anche se solo ottanta milioni di tedeschi hanno il diritto di scegliere chi poi guiderà tutti gli altri. La prevalenza della Germania è ormai un fatto acquisito a livello europeo. All’inizio era solo una prevalenza economica. Poi è diventata politica. Ora ha raggiunto i livelli di una prevalenza culturale. Vista da Bruxelles, dove hanno sede le istituzioni comunitarie, si tratta anche tangibilmente di una prevalenza burocratico-amministrativa.
La Germania ha piazzato i suoi uomini di fiducia (quasi sempre organici al partito della Cancelliera) in tutti i gangli vitali della macchina europea. Tedesco, ed ex consigliere di Angela Merkel per gli affari europei, è Uwe Corsepius, potente segretario generale del Consiglio europeo. Tedesco, già responsabile del settore esteri della Cdu, è Klaus Welle, segretario generale del Parlamento europeo. Tedeschi del resto sono il presidente del Parlamento Martin Schulz, socialdemocratico, e Manfred Weber, capogruppo del Ppe, partito di maggioranza nell’assemblea di Strasburgo. Di Lubecca è Klaus Regling, discreto direttore dell’Esm, il Fondo salvastati, già consigliere della Merkel per la regolazione finanziaria. Di Bonn è Martin Selmayr, capo di gabinetto del presidente della Commissione Juncker, di cui era stato anche il direttore della campagna elettorale come capofila del Ppe alle elezioni europee. Molti lo considerano l’eminenza grigia del Presidente. Di certo, gode della fiducia e dell’ascolto della Cancelleria.
Alla guida della macchina della Commissione la Germania ha quattro direttori generali, sei vice- direttori generali e 29 direttori. Nei gabinetti dei commissari, dove si forgiano le scelte politiche di fondo, i tedeschi hanno quattro capi di gabinetto, cinque vice e praticamente un funzionario in ogni gabinetto. Per dare un’idea dello strapotere di Berlino, l’Italia, che pure in questa nuova Commissione ha registrato il massimo storico, conta su un capo di gabinetto, quattro vice e 13 membri disseminati in ventotto gabinetti. La storia delle istituzioni europee ha conosciuto diversi cicli egemonici che corrispondono al mutare dei grandi orientamenti politici ma che hanno avuto sempre la Germania come deus ex machina. Sino alla fine degli anni ‘90, la mentalità, la cultura, la lingua di lavoro e la nazionalità prevalente nelle posizioni di vertice era francese. Era dovuto al fatto che, nell’asse franco-tedesco che governava l’Europa, la Germania assumeva il ruolo di partner silente. Ancora inibiti dalla pesante eredità morale della guerra, i tedeschi lasciavano il proscenio ai francesi a condizione che le scelte strategiche fossero preventivamente condivise tra Parigi e Berlino. Il culmine di questa fase, e anche la sua fine, si è raggiunto con il Trattato di Maastricht, in cui la Germania ha accettato l’unione monetaria rinunciando a pretendere l’unione politica che avrebbe voluto ma che si scontrava con il veto di Parigi.
Poi, lentamente, gli anglofoni hanno preso il sopravvento. Anche quest’evoluzione è stata frutto di una alleanza strategica con la Germania in funzione dell’allargamento ad Est. Questo obiettivo, mal visto dalla Francia fin dal momento della riunificazione, era condiviso per motivi diversi dai britannici e dai tedeschi. Londra vedeva nell’ampliamento Ue un modo per diluire e frenare l’approfondimento dell’integrazione. Berlino, diventata nel frattempo capitale, vi trovava molti vantaggi concreti: allargare i propri mercati, assicurare le frontiere orientali e mettersi al centro, geograficamente e politicamente, di una Europa più vasta, meno mediterranea e meno condizionata dalle altre due grandi potenze. La prevalenza tedesca di questo terzo ciclo è frutto delle scelte di allora e si accompagna al declino economico della Francia e dell’Italia e alla crescente ostilità della Gran Bretagna verso il progetto europeo, che ha portato Londra a estraniarsi dalle istituzioni comunitarie. La nuova fase coincide con l’aprirsi della crisi dei debiti sovrani, che mette a nudo le carenze dell’Unione monetaria e dimostra come solo Berlino abbia i conti in ordine e la forza economica per salvare, naturalmente alle proprie condizioni, gli altri naufraghi nella tempesta. In questo nuovo ruolo i tedeschi non hanno più bisogno né interesse a nascondersi dietro agli occasionali compagni di viaggio, siano essi francesi o britannici.
Oggi la Germania governa l’Europa dal centro di una triplice cinta di mura che rafforzano la sua posizione. In campo monetario, è rimasta il leader indiscusso della vecchia area del marco – Francia, Olanda, Austria, Finlandia, Belgio e Lussemburgo che ora si è trasferita nell’euro e ha potuto affrontare la crisi degli spread senza troppi scossoni. Da punto di vista politico, la Merkel è regina incontrastata del Ppe, il Partito popolare europeo, che ha la maggioranza nel Parlamento di Strasburgo, esprime la quasi totalità dei capi di governo, con l’eccezione di Francia e Italia, e detta le linee di politica economica per il continente. Dal punto di vista geostrategico, Berlino è il punto di riferimento di un’Europa che pende ad Est, e che la paura dell’espansionismo russo spinge sempre più a cercare la tutela tedesca. Il differente peso che l’Ue ha dato alla crisi Ucraina e a quella mediorientale, pur con le decine di migliaia di profughi che rischiano la vita nel Mediterraneo, ne è la prova più evidente e più dolorosa. Qualunque grande potenza, dalla Cina agli Usa alla Russia, che debba risolvere un problema con l’Europa telefona ad Angela Merkel. A Bruxelles, o alle altre capitali, si rivolge, semmai, per i dettagli. La Cancelliera orienta quel poco di politica estera che l’Ue si è data. È lei che telefona a Putin per l’Ucraina o ad Obama per il Trattato transatlantico e per protestare contro le intercettazioni della Nsa. È la Germania a dirigere la politica di bilancio dell’eurozona, e a condizionare sempre più anche la politica economica con l’imposizione di riforme strutturali. È ancora la Germania a ispirare gli standard europei in materia di ambiente, o di energia, o di tutela dei consumatori.
Naturalmente quest’esposizione in primo piano della potenza tedesca ha un elevato prezzo politico. Che però finora è pagato negli altri Paesi. Dai Cinque Stelle italiani ai Podemos spagnoli, dall’Ukip britannico alla destra nazionalista francese, i movimenti di contestazione contro l’Europa si alimentano di un risentimento anti- germanico che mischia, non sempre in buona fede, irritazioni attuali e odii antichi, che ci si illudeva fossero stati superati. Il solenne impegno di Kohl, «non voglio un’Europa tedesca, ma una Germania europea», sembra così destinato a finire nel limbo delle buone intenzioni. È vero solo in parte. Innanzitutto perché, sia pure dominante, questa è, effettivamente, una Germania europea. La classe dirigente tedesca, a cominciare da quella politica, è l’unica che abbia davvero interiorizzato una visione europea delle problematiche imposte da un mondo globalizzato. Ed è l’unica, con poche eccezioni tra cui una parte dell’establishment italiano, che ancora creda intimamente nella visione di una Europa più integrata.
Come osserva un alto funzionario della Commissione, la Germania è l’unico Paese che sappia trasmettere un messaggio riconoscibile sul futuro della Ue. E non è un messaggio egemonico. Quando la Merkel parla di «fare i compiti» o di «mettere ordine in casa propria», può suonare antipatica e saccente ma esprime una esigenza profondamente sentita da tutti i tedeschi. La richiesta quasi ossessiva di ordine, di affidabilità, di rispetto degli impegni assunti, non esprime una volontà di sopraffazione. Declina, in base alla cultura e alla logica tedesca, le condizioni alle quali la Germania è disposta ad accettare una ulteriore condivisione di sovranità. Reinhard Silberberg, già incaricato per gli affari europei della Cancelleria e ora ambasciatore tedesco presso la Ue, ama ripetere che la Germania, in Europa, «è un leader riluttante». E non ha tutti i torti.
Per restare sul treno europeo, la Merkel in questi anni ha dovuto piegarsi ad accettare molti passi che non avrebbe mai voluto compiere: dal fondo salvastati all’unione bancaria, dagli interventi straordinari della Bce alla supervisione unica del sistema creditizio, al ruolo decisivo del Parlamento europeo nel nominare il presidente della Commissione. Questa Europa a sovranità limitata e sotto tutela di Berlino non è un’Europa tedesca. È solo un’Europa in dolorosa transizione. Quando i governi nazionali, a cominciare da quello francese, capiranno che il solo modo per restituire piena sovranità ai loro cittadini è quello di condividere il potere politico come hanno condiviso la moneta, la Germania sarà probabilmente la prima a dire di sì. E ottanta milioni di tedeschi smetteranno, forse con sollievo, di decidere per cinquecento milioni di europei.