Corriere della Sera, 10 novembre 2014
Romano Prodi al Quirinale non ci pensa proprio: «Io non ho nessuna intenzione di fare il presidente della Repubblica. Non ho mai avuto lo sguardo rivolto al Colle, mai»
«Come può andare al Quirinale uno che impugna il telefonino al contrario?». È l’ora del tè e Romano Prodi risponde dal salotto della sua casa di Bologna. È di ottimo umore e ha voglia di scherzare, ma dopo i saluti torna serio e scandisce con forza il suo no: «Io-non-ho-nessuna-intenzione-di-fare-il-presidente-della-Repubblica». Di certo non gli è sfuggito come il suo nome sia in cima al totocandidati, né che Grillo mediti di usare la carta del voto a Prodi per mandare in pezzi il patto del Nazareno. Eppure il «prof» mostra olimpico distacco dalla partita cruciale della legislatura.
«Sto benissimo, giro come un matto per il mondo – racconta l’ex premier – Sono tornato dall’Oriente e sto partendo per gli Stati Uniti, voglio capire un po’ cosa succede sul fronte economico». E l’Italia? «Mi interesso piuttosto dei cambiamenti di potere in Europa». Davvero non guarda al Quirinale? «Io non ho mai avuto lo sguardo rivolto al Colle, mai, neppure per un momento». Quanto all’agguato dei 101 franchi tiratori del Pd, l’ex premier assicura di non portare su di sé alcun segno di sconfitta: «Non c’era nessuna ferita da chiudere, perché il problema non si era mai aperto».
Un anno e mezzo dopo il tradimento, che schiantò i democratici e costrinse alle dimissioni Bersani, lo scenario è completamente mutato. «Ma il Parlamento è sempre lo stesso» ricorda Chiara Geloni, autrice con Stefano Di Traglia di un libro su quei «giorni bugiardi». E il fatto che i grandi elettori non siano cambiati è l’elemento che più inquieta i vertici del Pd, viste le fibrillazioni di casa propria e le tensioni scissioniste di Forza Italia.
L’elezione del presidente della Repubblica è sempre stato il trionfo dei trappoloni, degli agguati, delle vendette. La saga dei franchi tiratori, insomma. Nel 2013 il Pd ne schierò tra i suoi banchi un numero che resterà scolpito nelle più brutte pagine del centrosinistra: 101, appunto. E il pericolo è tutt’altro che scongiurato. Marco Follini, che di votazioni a scrutinio segreto ne ha viste tante, è convinto che «i nemici di Renzi si siano dati appuntamento tutti lì» e immagina la scelta del successore di Napolitano come «un derby tra il capo del governo e i suoi oppositori». Per l’ex leader dell’Udc, l’inquilino di Palazzo Chigi dovrà stringere alleanze a prova di bomba o proporre nomi, come Fassino e Veltroni, che possano garantire una platea più larga del Pd. «Renzi non potrà vincere questa battaglia facendo leva solo sul giglio magico», è la tesi di Follini.
La storia recente conferma che esce cardinale dall’Aula chi vi è entrato Papa, come accadde a Franco Marini. Il quale non ha dimenticato la «cosa volgare e ingiusta» che gli toccò subire. Il già presidente del Senato, ora a capo del «Comitato storico-scientifico per gli anniversari di interesse nazionale», distilla una battuta delle sue: «Il Quirinale? Se vuole parlare della Grande guerra sono a disposizione». I preparativi del centenario fervono, è vero, però quella di Marini è anche una bella metafora per far capire quanto cruenta potrebbe essere la sfida.
Per nulla appassionato al «gioco delle ipotesi» si mostra Stefano Rodotà: «Con questo Parlamento ho avuto un po’ a che fare» ricorda con amarezza il professore, che «per eleganza e riservatezza» preferisce schivare il tema: «Non vorrei che una parola, anche minima, venisse interpretata come una polemica tardiva. Eppure ce ne sarebbero tante, da dire...». Stato d’animo comprensibile per una personalità che Grillo, il 19 aprile 2013 (era un venerdì), vedeva già al Quirinale: «Votiamo Rodotà e martedì c’è il governo».
Andò diversamente dai pronostici e così è stato sempre, tranne che per Cossiga e Ciampi. E chissà quante riflessioni avrebbero ancora da distillare in materia D’Alema e Amato, altri due leader del centrosinistra stoppati dai veti e dai rancori...