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 2014  novembre 10 Lunedì calendario

La tristezza del toto-Quirinale: «Invece di valutare il senso di un’intenzione che Napolitano aveva preannunciato alla sua rielezione, è subito scattata una specie di toto-ministri, in cui politici di un po’ tutti i partiti, sembrano impegnati soltanto a scommettere sul successore, con una ventina di nomi che già si affollano al borsino dei bookmakers»

La nota con cui ieri il Quirinale «non conferma e non smentisce» l’ipotesi di dimissioni di Napolitano fotografa la situazione incredibile che s’è generata, non appena s’è diffusa la voce che il Capo dello Stato potrebbe lasciare il suo incarico poco dopo la fine del semestre europeo di presidenza italiana. Il paradosso consiste in questo: invece di valutare il senso di un’intenzione che il Presidente aveva preannunciato fin dal momento in cui aveva accettato la sua rielezione, un anno e mezzo fa, è subito scattata una specie di toto-ministri, in cui politici di un po’ tutti i partiti, con l’eccezione di Renzi e pochi altri, sembrano impegnati soltanto a scommettere sul successore, con una ventina di nomi che già si affollano al borsino dei bookmakers.
 
Ora, a parte l’amarezza che traspare dalle righe della nota, è evidente che Napolitano, quando ha fatto accenno, in ripetute occasioni, alla possibilità che il suo secondo mandato si concludesse in anticipo, si aspettava da tutti un atteggiamento più responsabile. Se non altro perché la sua rielezione era maturata in circostanze drammatiche e, almeno negli auspici, irripetibili.
Drammatiche e irripetibili: il Parlamento riunito in seduta comune e manifestamente non in grado di provvedere all’elezione del nuovo Presidente; due candidati dotati, sulla carta, di solide maggioranze, bruciati dai franchi tiratori; la processione dei leader politici, e perfino dei delegati regionali, sul Colle, per convincere l’inquilino, che aveva già ultimato il trasloco, a rimanere al suo posto.
 
L’eco di questo insopportabile fallimento, che aveva superato tutto d’un colpo le grandi manovre che accompagnano le elezioni presidenziali, con una continuità che attraversa più di sessant’anni di vita della Repubblica, si era subito avvertito nel discorso che lo stesso Napolitano aveva pronunciato, appena rieletto, davanti ai deputati e ai senatori ancora riuniti: ho accettato di restare, ma non per scaldare la sedia, aveva detto in sostanza il Presidente. E se non sarete in grado di provvedere alle riforme indispensabili che il Paese non può più aspettare, me ne andrò, mi dimetterò, denunciando la vostra incapacità ai cittadini.
Ma ora sembra che neppure questo abbia più voglia di fare Napolitano. L’anno e mezzo che è trascorso gli ha inflitto una lunga serie di delusioni: è durato pochi mesi il governo di larghe intese che aveva messo su faticosamente, dopo un risultato elettorale che non assegnava a nessuno la maggioranza; la querelle con Berlusconi, dopo la condanna definitiva subita dal leader di Forza Italia in Cassazione, è arrivata al limite dell’insulto; le riforme costituzionali, ripartite in un clima non certo di collaborazione, si sono impantanate prima del previsto; le riforme economiche chieste dall’Europa hanno acceso nel Paese uno scontro sociale stile autunno caldo, ma del tutto fuori stagione; la riforma elettorale approvata solo alla Camera è tutta da rifare. E per finire, last but not least, si riparla di elezioni anticipate. Ce n’è abbastanza per convincere anche un uomo della tempra di Napolitano, per nulla avvezzo a rassegnarsi, che il suo sforzo non è bastato; e l’istinto suicida del sistema politico italiano ha avuto o sta per aver di nuovo il sopravvento.
Malgrado ciò, quando verrà il momento – e la nota del Quirinale ricorda a tutti che il momento non è arrivato, questo è ancora il tempo della riflessione – Napolitano forse non farà quel che aveva promesso. Bacerà la bandiera davanti ai militari schierati nel cortile del Quirinale, come vuole la liturgia dell’addio al Colle, ma se ne andrà in silenzio, senza parlare, né gridare, né denunciare, consapevole che il rispetto delle istituzioni, che ha informato tutto il suo doppio mandato, richiede questo ulteriore esercizio di pazienza, e le parole non dette peseranno più delle tante pronunciate invano in questi otto anni.
Proprio per questo, da adesso ad allora, nel breve lasso di tempo – qualche settimana o qualche mese – che ci separa dalle dimissioni ormai certe del Capo dello Stato, sarebbe auspicabile un ripensamento, un rigurgito di coscienza, un ritorno alla realtà degli stessi politici che in questi giorni hanno approcciato la questione della successione al Quirinale con tanta faciloneria. Basterebbe prendere in considerazione che l’uscita di scena di Napolitano, per l’Italia, rappresenta un problema, non solo sul piano interno, ma internazionale, dato che in questi ultimi tre anni in cui la crisi italiana ha toccato punte di acume allarmanti, l’uomo del Colle è diventato il garante della credibilità del nostro Paese anche agli occhi degli osservatori più scettici: quelli, per intenderci, che non facevano differenza tra noi e la Grecia. È un primo aspetto che dovrebbe influire nel tracciare l’identikit di un possibile successore; insieme all’esperienza, che Napolitano ha riversato nel suo lavoro quotidiano, dopo oltre mezzo secolo di vita politica, e vent’anni, dalla presidenza della Camera al Viminale, al servizio delle istituzioni. Aspettarsi un miracolo del genere forse è impossibile. E tuttavia sarebbe un giusto segno di gratitudine, una forma di risarcimento, un modo per non rendere vano il sacrificio chiesto al Presidente.
La nota con cui ieri il Quirinale «non conferma e non smentisce» l’ipotesi di dimissioni di Napolitano fotografa la situazione incredibile che s’è generata, non appena s’è diffusa la voce che il Capo dello Stato potrebbe lasciare il suo incarico poco dopo la fine del semestre europeo di presidenza italiana. Il paradosso consiste in questo: invece di valutare il senso di un’intenzione che il Presidente aveva preannunciato fin dal momento in cui aveva accettato la sua rielezione, un anno e mezzo fa, è subito scattata una specie di toto-ministri, in cui politici di un po’ tutti i partiti, con l’eccezione di Renzi e pochi altri, sembrano impegnati soltanto a scommettere sul successore, con una ventina di nomi che già si affollano al borsino dei bookmakers.