Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  novembre 07 Venerdì calendario

La lotta all’evasione dice addio a scontrini e ricevute fiscali, punterà tutto sui pagamenti tracciabili. Una rivoluzione per il fisco: basta con i blitz, studi di settore da rivedere. L’annuncio di Rossella Orlandi, direttore dell’Agenzia delle entrate

Eliminare registratori di cassa, scontrini e ricevute fiscali. Usare gli studi di settore solo in chiave preventiva, per selezionare i soggetti a rischio evasione da controllare. E sostituire entrambi, carta e studi, con la completa tracciabilità elettronica dei pagamenti. Questo è il fisco del futuro, targato Rossella Orlandi, neo direttore dell’Agenzia delle entrate. Un fisco che punta su auto- correzione delle dichiarazioni dei redditi, lotta senza quartiere ai grandi evasori e alle mega frodi fiscali, meno blitz e controlli mirati, rinata fiducia tra contribuenti e Stato basata sulla legalità. I tempi? Nessuno li conosce. Ma il «cambio di verso», come l’ha definito ieri alla Camera la Orlandi, pare vicino. La diffusione della tracciabilità, cuore della riforma tributaria che verrà, viene dunque considerata come «formidabile deterrente all’evasione». Anzi, per il numero uno dell’Agenzia «incentivare l’uso di strumenti tracciabili per effettuare pagamenti in ogni ambito» è addirittura «prioritario». A partire proprio da quei soggetti che ora sono sottoposti agli studi di settore, oltre 3 milioni e 600 mila contribuenti, piccole e medie imprese sotto i 5 milioni di fatturato annuo. Al bar con la carta di credito, il bancomat o lo smartphone per pagare il caffè? Possibile. Auspicabile, anzi per la Orlando, anche «per ridurre i rischi e gli oneri connessi all’uso del contante». Per il quando e il come si vedrà, dunque.
Completa tracciabilità elettronica significa «abbandono di alcuni strumenti risultati inefficaci, come i misuratori e le ricevute fiscali», dice chiaro e tondo la Orlandi. E i costi di adeguamento al nuovo sistema? A carico dello Stato, fa in- tendere. Sottolineando pure i «minori oneri per le imprese». Laddove non saranno più necessari né registri dove annotare fatture e scontrini né commercialisti per denunciarli a fine anno. Perché il Fisco conoscerà per filo e per segno entrate ed uscite. E chissà, potrà spedire financo ai piccoli imprenditori, al parrucchiere e al verduraio, la dichiarazione precompilata. Un grande fratello fiscale buono, imparziale, efficiente. Così sembrerebbe. In cambio, «il progressivo abbandono di controlli massivi sul territorio da parte dell’amministrazione finanziaria». Funzionerà, nel paese dell’evasione da 120 miliardi all’anno e delle liti fiscali per un cavillo?
La strategia è chiara, quantomeno. E ricomprende pure «un’evoluzione delle banche dati», grazie «al miglioramento delle modalità di incrocio». Così da utilizzare la «mole di informazioni già disponibili» (spese, redditi, assicurazioni, investimenti), destinate a salire quando il cartaceo sarà del tutto soppiantato dal digitale, per aprire la finestra dei redditi anche al contribuente. Un doppio affaccio, una «vista» doppia, la chiamano all’Agenzia delle entrate. Un modo per ogni italiano di accedere con una password all’intero estratto conto fiscale, capire quanto di noi il Fisco già sa, evitare di fare il furbo e pagare le giuste tasse. Magari auto-correggendo quanto non versato. In questo campo, una possibilità in più è inserita nella legge di stabilità per il 2015. Il ravvedimento “lungo”, ovvero cinque anni di tempo per correggere gli errori anche in flagranza di controlli, anziché entro la presentazione della dichiarazione dell’anno successivo, come ora. E le sanzioni? Ridotte e crescenti col passare del tempo.

Valentina Conte



«Vuol dire che hanno debellato l’evasione fiscale?». A Franco Reviglio, considerato il padre della ricevuta fiscale, non convince neanche un po’ l’idea di superare lo scontrino fiscale. Reviglio, oggi quasi ottantenne, professore emerito di Scienza delle Finanze all’Università di Torino, è stato ministro delle Finanze all’inizio degli anni 80, poi presidente dell’Eni. Alla sua scuola è cresciuto un gruppo di giovani economisti e manager chiamati appunto i “Reviglio boys”: Giulio Tremonti, Domenico Siniscalco, Mario Baldassarri, Franco Bernabè, Alberto Meomartini.
Professor Reviglio, lei dunque non condivide la proposta del direttore delle Agenzia delle Entrate di superare lo scontrino fiscale con la completa tracciabilità delle transazioni?
«Assolutamente no. A me non pare che ci siamo elementi che facciano pensare che siamo di fronte a una riduzione dei tassi di evasione fiscale. Anzi, mi pare che i tassi di evasione siano davvero ancora elevati. Se l’Agenzia delle Entrate ha nuovi dati dovrebbe renderli pubblici».
Cosa rappresentò all’inizio degli anni 80 l’introduzione della ricevuta e dello scontrino fiscali?
«Appunto: avere la tracciabilità. La ricevuta, come lo scontrino, sono strumenti efficaci di lotta all’evasione fiscale».
La loro introduzione costituì uno spartiacque tra una lotta blanda all’evasione fiscale e un’azione più determinata?
«L’idea era quella di fare dello scontrino uno strumento efficace in mano a chi doveva condurre la lotta all’evasione fiscale».
Trovò opposizioni alla sua proposta?
«All’epoca non ne ricordo. Ricordo il ruolo importante, in positivo, svolto in Parlamento da Rino Formica. Non ci furono tentativi di bloccare la riforma.
Dopo oltre trent’anni mi pare che sia stato uno strumento utile. Per questo bisognerebbe chiedere perché si intenda ora superarlo. Senza scontrino mi pare difficile combattere efficacemente una parte dell’evasione».
Lo scontrino resta, secondo lei, lo strumento principe per una parte della lotta all’evasione fiscale?
«L’obbligo della ricevuta fu pensato soprattutto per i ristoranti. Bene, mi pare che oggi sia molto difficile che un ristorante non rilasci la ricevuta fiscale. Va da sé che tutti questi strumenti funzionano se l’amministrazione pubblica ne fa buon uso».
Insomma lei ritiene che abbia superato bene i trent’anni di vita?
«Sulla base della mia esperienza personale, nove volte su dieci lo scontrino viene ormai rilasciato».
L’introduzione dello scontrino ha avuto anche una funzione pedagogica nei confronti dei contribuenti?
«Ha esercitato una funzione educativa non di secondaria importanza. Il contribuente ha capito di essere portatore di un interesse specifico nell’azione di contrasto all’evasione fiscale. Tanto che è stata introdotta una sanzione anche nei confronti di coloro che non chiedono la ricevuta al negoziante».
Vi ispiraste a qualche esperienza straniera?
«No. Lo scontrino fiscale fu uno strumento nuovo introdotto nel nostro Paese. Ma uno strumento così funziona solo se viene adeguatamente utilizzato dall’amministrazione altrimenti si trasforma in una tigre di carta che non spaventa nessuno».
Roberto Mania



«È un foglietto volante e come tale non mi ha mai appassionato: il suo arrivo non ha cambiato la società italiana e non lo farà nemmeno la sua scomparsa». Per Giuseppe De Rita, presidente del Censis, lo scontrino fiscale è uno strumento ininfluente. In tema di tasse, di evasioni e di controlli il fenomeno rilevante oggi è un altro: il veloce aumento del sommerso, dei redditi in nero che produce e del «risparmio nascosto» che genera.
Lo scontrino fiscale non dovrebbe portare alla luce tutto questo?

«No, perché il sommerso che vedo in forte crescita non è legato ai consumi, ma al lavoro. È un fenomeno molto diverso da quello che rilevammo quarant’anni fa, quando le aziende producevano in nero, ma superata una prima fase iniziale irregolare arrivavano poi all’emersione».
Un’emersione alla quale forse si approdava anche grazie a quel foglietto volante.

«Non direi: gli italiani sono fatti così, raramente davanti alle casse chiedono scontrino o ricevute. Emetterli o meno sta al buon cuore dell’esercente. Quell’emersione da anni Settanta e Ottanta arrivò perché allora il nero era legato all’esigenza di far sopravvivere l’azienda nel momento in cui arrivava sul mercato; ma una volta avviata l’attività, la regolarizzazione, almeno parziale, era fuori discussione. Oggi crisi e precariato hanno completamente modificato il contesto: chi lavora in nero punta al sommerso totale, il denaro non viene nemmeno depositato in banca, ma resta cash, magari nascosto sotto al materasso».
Perché, secondo lei, non chiediamo scontrini e fatture?

«Per certi versi una detrazione fiscale diretta aiuterebbe, ma di certo non basterebbe a far venire alla luce i redditi nascosti. Dovremmo vergognarci di questo atteggiamento, forse rispetto al popolo americano o inglese manchiamo semplicemente di dimensione civica. Da noi il meccanismo del controllo sociale non scatta e a quel punto non c’è controllo fiscale che possa sostituirlo».
L’arrivo di una tracciabilità spinta, di una sorta di “grande fratello fiscale” potrebbe incidere su questa mentalità?

«Non credo. Siamo il Paese del “ce ne faremo una ragione”, le questioni non vengono mai affrontate di petto, alla fine subentra sempre una sorta di passivo adattamento. Aumentano le tasse? Ce ne faremo una ragione. Aumenta la benzina? Ce ne faremo una ragione. Arriva il grande fratello? Ce ne faremo una ragione o meglio, troveremo il modo di aggirare l’ostacolo. Magari semplicemente non trascrivendo la vendita sul registratore telematico, che comunque continuerà a controllare un commercio formale o un lavoro formale. Tutte le altre fonti di reddito continueranno a rimanerne escluse. Eppure non è questo che mi preoccupa».
Cosa la preoccupa?

«Il fatalismo in crescita e gli effetti mortificanti che ha sulla società e sulla economia italiana».
Un fatalismo generato dalla crisi?

«Io ne ho notato un’impennata dal governo Monti, da allora riscontro una paralisi delle aspettative e questo mi preoccupa perché la diretta conseguenza di questo atteggiamento è un Paese spento».
Luisa Grion