il Giornale, 7 novembre 2014
Venticinque anni senza il Muro di Berlino. La sinistra italiana si ritrovò con le spalle al muro ma cantò vittoria. Invece di ripensare la storia, gli intellettuali esaltarono la caduta della cortina di ferro come prova della democraticità del comunismo
Restammo tutti di sale quando Sandro Curzi, direttore del Tg3 detto Telekabul in quota PCI, inneggiò alla caduta del Muro di Berlino seguito dalla maggior parte dei comunisti italiani, nessuno dei quali accennò alla vergogna dell’ideologia e a quella propria. Ma già allora il PCI era spaccato in due fra un’ala filo occidentale (Berlinguer aveva detto di sentirsi più al sicuro sotto l’ombrello della Nato) e un’ala filosovietica. Si scatenò così l’orgia dei luoghi comuni secondo cui erano cadute «tutte le ideologie» e che di conseguenza si sarebbero dovuti abbattere «gli altri muri», non meglio specificati. Era una frase ad effetto, ed ebbe effetto. Il comunismo europeo e anche italiano giocava di contropiede: acquistava l’effetto mediatico della demolizione del Muro di Berlino e rivendeva la balla di un comunismo improvvisamente libertario.
Come mai? Per poter dare una risposta devo fare un passo avanti e uno indietro. Il passo avanti fu quello di un convegno convocato a Roma nel 1999 per il decennale della caduta del famoso Muro. Di cui fui l’organizzatore e poi il conduttore. La stampa italiana non ne dette notizia perché il convegno era considerato «berlusconiano».
Nel corso del convegno avvenne un fatto che incise sulla mia memoria e consapevolezza storica: mi si avvicinò Lech Walesa, il mitico capo di Solidarnosc che poi diventò presidente della repubblica polacca, letteralmente furioso. Parlava a raffica tradotto a perdifiato da una interprete che riusciva a stargli dietro. Mi affrontò: «Ma che diavolo vi è venuto in mente di fare un convegno sulla caduta del Muro di Berlino, come se fosse stato davvero il fatto che fece cadere il comunismo in Europa? È una balla messa in giro dai sovietici e voi ci siete caduti. Il comunismo russo l’abbiamo fatto cadere noi polacchi col sindacato mettendo in crisi il loro sistema».
Il discorso mi sembrò stravagante, ma accese in me una certa curiosità. E così andai a riesaminare i fatti che avevano portato alla festosa e popolare demolizione del Muro. E ho trovato cose perfettamente note e altrettanto radicalmente dimenticate: fu proprio il quasi santificato Gorbaciov (che non fu mai eletto da nessuno e che era stato il pupillo di Yuri Andropov, grande costruttore del KGB) ad andare a Bonn, capitale dell’allora Repubblica Federale Tedesca, per fare un discorso al Bundestag, il parlamento della Germania occidentale. Fu lì che annunciò la caduta, o meglio la demolizione, del Muro. L’indomani si presentò a Berlino Est accolto dai giovani della RDT che urlavano «Gorby! Gorby!». E Gorby, che aveva immaginato uno svolgimento più formale dell’evento, non riuscì a trattenere la folla che dette mano ai picconi.
Aveva ragione Walesa: l’Unione Sovietica aveva deciso da più d’un anno di liberarsi dei costosissimi Stati satelliti e aveva cominciato durante l’estate del 1989 proprio dalla Germania permettendo ai turisti tedesco-orientali di andare in Croazia, sicché quelli poi, nelle loro Trabant di latta dilagarono in Occidente. Che diavolo stava succedendo ad Est, si chiesero tutti. Stava succedendo quel che di lì a poco avrebbe portato alla caduta a domino di tutti i regimi comunisti dell’Est. Io andai alla fine del 1989 ad abitare a Praga dove raccolsi molte prove dell’appoggio sovietico alla caduta del regime comunista.
In Romania la caduta del regime di Ceausescu fu guidata dagli agenti di Gorbaciov e io stesso assistetti a Bucarest alla dura repressione delle milizie dei minatori contro gli studenti che volevano guidare la rivoluzione in senso libertario e nazionale.
Ma l’abbattimento del Muro di Berlino fu certamente il colpo da maestro della dirigenza sovietica e in particolare dei quadri intellettuali che erano cresciuti intorno ad Andropov. Per capirne a fondo il senso bisognerebbe consultare un fondamentale volumone reperibile solo via Internet e in inglese The Cardboard Castle (il catello di carte) contenente i verbali di tutte le riunioni del Patto di Varsavia, la Nato orientale, da cui si vede come l’Urss si fosse dissanguata vanamente per prepararsi a combattere e vincere una guerra lampo che la tecnologia occidentale e le «guerre stellari» di Reagan resero sempre impossibile.
Noi non abbiamo le prove, ma sembra del tutto ovvio che Mosca abbia avvertito i partiti comunisti europei occidentali dell’imminente operazione chiedendo sostegno mediatico e una campagna che valorizzasse il carattere «democratico» dell’evento. Rilanciando per buon peso la posta fino a sfidare lo stesso Occidente a mostrarsi altrettanto amante della libertà con l’abbattimento (misterioso) dei propri muri. Infatti da quel momento fu lanciata la litania della fine delle (plurale) ideologie. Su un punto però Gorbaciov vide lungo: la caduta del Muro di Berlino sarebbe stata santificata e commemorata per sempre, come stiamo facendo noi, perché quello fu l’evento visibile ed emozionante che tutti abbiamo vissuto. Mi spiace per Lech Walesa, il quale ha inutilmente ragione, come spesso capita nella storia.