Corriere della Sera, 7 novembre 2014
Marco Paolini e il suo incontro casuale con il teatro. Figlio di un ferroviere e di una casalinga studiò agraria e pensava che da grande avrebbe aggiustato motori
«I pensionati oggi si vestono come teenager. Non li sopporto, in fila a comprare scarpe da ginnastica che non useranno mai per correre. Né sopporto gli uomini che coordinano i colori di calzini e colletti di magliette». In questa orazione spicciola, Marco Paolini non risparmia se stesso: «Non mi chiamo fuori, penso anch’io a cosa metto e non ho la sindrome Giorgio Bocca...». Quale? «Pensare che i miei tempi fossero migliori. Però...». Cosa? «Ricordo che da bambini venivamo vestiti dalla mamma che sceglieva le cose, ma loro, gli adulti, si mettevano delle cose che gli piacevano sì, ma senza troppo pensarci. Adesso è come se tutti, piccoli e adulti, pensassimo a quello che la mammina pubblicità vuole farci mettere». Lo shopping, per Paolini, è un esercizio spirituale di minimalismo: «Entro in un negozio quando devo, prendo quattro paia di pantaloni, stesso modello, li uso due anni, come i vestiti di Paperino, con variazioni minime blu, marrone... a volte oso, con il rosso». Pantaloni? «No! Un maglione». Poi, quasi interdetto: «Ma perché dico queste cose? Se affermo che non comprerò mai le scarpe rosse, il giorno che dovessi farlo passerei per un...». E tronca il discorso con una frase che tiene in caldo lo stupore: «A Milano gli uomini vanno in giro in fusò! Neanche le tute, i fusò!».
Una famiglia di puffi-ferrovieri
Paolini ci accoglie nel suo studio a Padova, vicino alla stazione, sede della JoleFilm, società di produzione fondata nel 2002 con la moglie Michela Signori. Il logo è una donna semi-nuda, il nome Jole è di un’ex-prostituta che gestisce un bar, personaggio ricorrente nei testi degli Album.Si respira un clima familiare, come i biscotti fatti in casa dall’assistente; in una stanza dai vetri trasparenti, due ragazzi montano un video. Tra i libri che Paolini ha con sé, ce ne è uno che spiega bene il rapporto con la tecnologia e i giovani: in Quello che vuole la tecnologia (Codice, 2011), «Kevin Kelly, l’autore, cita gli Amish, che sembrano chiusi, ma in realtà affidano ai più giovani il compito di provare le novità tecnologiche del mondo di fuori, per capire se possono essere utili alla comunità. Le vecchie generazioni non devono imporre il conservatorismo e i giovani devono porsi un obiettivo, critico». E Paolini, da giovane, cosa immaginava avrebbe fatto da grande? «Uno di quelli che sanno aggiustare i motori. Mio padre era ferroviere, mia madre casalinga, ho studiato agraria, il teatro è stato un incontro casuale, l’invenzione di un destino. Vivevo nella grande famiglia dei ferrovieri: si rompeva un rubinetto? Veniva il ferroviere-idraulico. Saltava la luce? Ecco il ferroviere-elettricista. Una comunità auto-sufficiente, come i Puffi».
Gli uomini sbagliati di Verdi
Il racconto del Vajont trasmesso in diretta da Raidue il 9 ottobre ‘97 è stato un sorprendente incrocio di teatro e televisione, che ha incoronato Paolini cantore di un rinnovato teatro civile: «Ma non chiamatemi “la coscienza degli italiani”! – sbotta con garbo – Gli amici mi prendono in giro, è un nomignolo! E poi oggi c’è troppa sete di profeti ed eroi. Penso all’ufficiale De Falco, del quale non posso che pensare bene, ma che lo si associ a una candidatura politica non mi piace». Paolini preferisce, piuttosto, venire travisato attraverso il suo modello di riferimento, Giuseppe Verdi: «Sono affezionato all’idea della tragedia dell’arte. Come Verdi, che ha creato un repertorio di sfigati, gobbi, puttane, lenoni protagonisti di storie sbagliate, in cui qualsiasi italiano poteva ritrovare qualcuno più sfigato di lui; un repertorio che con l’Unità d’Italia ci teneva assieme. Anche se noi siamo una patria di fratricidi, come ricorda Saba che sui Fratelli d’Italia ci dice occhio, ci ammazziamo tra noi! Ecco, nel mio piccolo, con Vajont sono andato in quella direzione di Verdi: con la commedia dell’arte, passi la nuttata, con la tragedia impari una lezione. A me interessano le storie di errori umani, fatti anche in buona fede, che poi diventano paradigmatiche. Certo Verdi faceva anche ridere, ma oggi c’è la dittatura del comico. Senza che ci sia auto-ironia. L’overdose comica rende sordi».
Twitter no, ma l’epitaffio sì
Nella società dell’iper-connessione per Paolini manca l’ascolto, che è tipico del comico: insegna a incassare il colpo, come in Stanlio e Ollio. «Prendi la torta in faccia, elabori e poi la tiri a tua volta; si va avanti così. Ma devi essere disposto a farti colpire, essere vulnerabile. Ed è molto seduttivo, bello: io godo delle conversazioni vere con i miei amici, odio quei rivoli di conversazioni online o in certi incontri pubblici». Non ama i cinguettii digitali: «Sui social network ci sono tante battute, ma pochi pensieri, brandelli di discorsi...». E recita una frase che comunque starebbe comoda in 140 caratteri: «Sulla mia tomba voglio scritto: “Prima de parlar, tasi”». Oggi manca la «disponibilità a farsi colpire da quello che dicono gli altri. A livello politico e mediatico, sembrano super-eroi, intoccabili: si parlano addosso o contro». Grillo e Renzi? «Parliamo di tv, andiamo indietro. Il modello è Vittorio Sgarbi: negli anni 90 aveva la missione kamikaze di screditare Mani Pulite per bilanciare l’appoggio dell’opinione pubblica. Preferisco la tv di Giuliano Ferrara: puoi non condividere, ma c’è sostanza».
Checco Zalone e gli animalisti
A Paolini piacciono i film di Checco Zalone. Il cameo per Sole a catinelle è stato una «terapia» auto-ironica: «É stato divertente fare lo stronzo industrialotto. Ma qualcuno ha confuso il personaggio con l’attore. Altre volte si confonde narrazione e visione». Fino al paradosso: «Quale spettacolo mi ha creato più problemi? Non quello su Ustica o l’Ilva, ma Ballata di uomini e cani. Ho ricevuto lettere minatorie di animalisti che mi accusavano di voler maltrattare gli animali. Ma il testo era di London, Bastardo: un uomo e un cane si avviluppano in un odio shakesperiano dove uno cerca di ammazzare l’altro. E London – qui a Paolini si accendono gli occhi azzurri da husky – è un maestro nel raccontare la storia dal punto di vista del cane, dare voce al suo sguardo».