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 2014  novembre 07 Venerdì calendario

I 70 anni di Gigi Riva, solo, scontroso, più sardo dei sardi. I gol, le gambe rotte, i compagni che lo chiamavano Hud (come Paul Newman). «Mi hanno fregato un Pallone d’oro»

Corriere della Sera
Visto che pure il rombo di un tuono perde la sua forza disperdendosi nei cieli, oggi Gigi Riva, il Rombo di Tuono nato da una geniale intuizione di Gianni Brera, compie 70 anni. A pensarci bene sembra impossibile che quel ragazzo amante dei silenzi, il sinistro come un fucile a raggi infrarossi per impallinare i portieri, si sia fatto dribblare dalla vecchiaia. Gigi era l’essenza stessa della gioventù, di un’Italia riemersa dalla guerra e baciata dal boom degli anni Sessanta. I suoi gol avevano il fascino e la forza delle gesta di certi eroi dei nostri studi classici e il fatto che la sua bandiera fosse quella del Cagliari, squadra appartenente alla periferia dell’impero calcistico, contribuiva a trasformare egli stesso in un eroe.
Gigi è un uomo di lago che la Sardegna ha trasformato in qualcosa di molto simile a un lupo di mare. Nato a Leggiuno, provincia di Varese, il 7 novembre del ’44, quando il profondo Nord stava consumando gli ultimi drammi di Mussolini e della Repubblica Sociale Italiana, da ragazzino ha sfogato su un pallone dolori e frustrazioni per la perdita prematura di entrambi i genitori: «Quando penso al mio lago, il lago Maggiore, mi si stringe sempre il cuore. Il lago è l’infanzia, è papà e mamma, le mie sorelline. La Sardegna però mi ha rapito».
Primi calci nel Laveno Mombello, dilettanti, poi a Legnano in serie C prima del trasferimento a Cagliari, non ancora diciannovenne, nell’estate del ’63: «Che anni, quegli anni. Irripetibili. Chi verrà dopo di noi non sarà così fortunato». Da Cagliari Gigi non si è più mosso: corteggiato da tutti i più grandi club dell’epoca (Juventus in testa), corteggiato dalle donne.
Oggi Gigi Riva compie 70 anni e 70 è uno dei numeri chiave della sua mitologica esistenza. Nel ’70 le sue reti pilotano infatti il Cagliari e l’intera Sardegna verso uno scudetto che sarebbe rimasto unico, il vecchio stadio Amsicora come laboratorio e un allenatore filosofo come Manlio Scopigno. Nel ’70, il 18 gennaio, realizza uno dei suoi gol più belli: la rovesciata di Vicenza. Nel ’70, con 21 reti, vince per la terza volta la classifica dei cannonieri (le precedenti nel ’67 e nel ’69). Nel ’70, in azzurro, diventa vicecampione del mondo firmando (il 17 giugno) la rete del 3-2 in Italia-Germania 4-3, semifinale allo stadio Azteca di Città del Messico, la partita del secolo: e nel ’68 si era già laureato campione d’Europa. Nel ’70 si piazza terzo al Pallone d’oro, alle spalle di Gerd Muller e Bobby Moore, ma «quello è stato un furto perché quando l’anno precedente arrivai secondo dietro a Rivera gli organizzatori mi garantirono: l’anno prossimo lo diamo a te».
Gigi Riva in Nazionale ha giocato 42 gare segnando 35 gol (la metà di 70, quando si dice la coincidenza), record che a tutt’oggi nessuno ha avvicinato, e alla patria ha donato entrambe le gambe: nel ’67, amichevole all’Olimpico contro il Portogallo, si frattura il perone, e nell’ottobre ’70 (sempre il 70 che ritorna nel suo destino) rimane vittima del killer austriaco Hof che a Vienna gli spezza tibia e perone, con il volo di ritorno in Italia che diventa in una via crucis: «L’ingessatura era così stretta che tutta la gamba si gonfiò diventando blu: ancora oggi ne patisco le conseguenze».
Gigi ora comunque ci scherza sopra: «Quando incontrai Hof più di un anno dopo in occasione della partita di ritorno gli dissi: non fare il cretino, non spaccarmi anche l’altra caviglia».
Oggi Gigi, storico team manager azzurro dal ’90 allo scorso anno, fa 70 e festeggerà da Giacomo, l’amico del ristorante alla Marina che è ormai il suo rifugio, con i due figli e le quattro nipotine. Rombo di Tuono è diventato nonno. Per l’occasione il primo tavolo sulla sinistra vicino all’entrata, quello che Gigi ha trasformato nel suo piccolo trono e a cui chi scrive ha avuto il privilegio di accedere, rimarrà vuoto. Tanti auguri Gigi, eroe di una generazione che credeva nel futuro!

Alberto Costa

la Repubblica
Compie oggi settant’anni Gigi Riva, ala sinistra della nazionale campione d’Europa nel ’68 e vicecampione del mondo nel ’70, e attaccante del Cagliari dello scudetto (’69/70). Pubblichiamo un estratto dall’introduzione di Gianni Mura al volume Bravi & Camboni di Paolo Piras (Egg edizioni, 248 pagine, 14 euro).
Un mercoledì Scopigno interruppe la partitella dopo che Riva era stato duro su Martiradonna. Non urlò, Scopigno (e quando mai?), ma gli disse: non fare il cretino, se manchi tu possiamo cavarcela ma se manca Mario domenica perdiamo. Gigi abbassò la testa e non disse nulla, sapeva di aver torto. Quel Cagliari aveva gli uomini contati, ma erano tutti uomini veri e bravi calciatori, in qualche caso ottimi. E comunque, anche se il termine non era ancora di moda, facevano gruppo. Gli scapoli mangiavano al Corallo, Riva i compagni lo chiamavano Hud (dal film Hud il selvaggio con Paul Newman). Succedeva che, senza preavviso, si alzasse da tavola e andasse a guidare sulla costa ad altissima velocità. «Dopo un giretto con Gigi ho fatto l’assicurazione sulla vita», mi ha raccontato Boninsegna.
Era un mondo adulto, si sbagliava da professionisti, commenterebbe l’avvocato Paolo Conte (milanista). Ma si sbagliava poco. Senza il coraggio e i gol di Riva, che riportavano al tempo nuragico dei re guerrieri, non ci sarebbe stato scudetto. Ma i gol di Riva non sarebbero bastati, se intorno non avesse avuto una squadra capace di incassare solo 11 gol in 30 partite. «In questi 11, contiamo anche un rigore e un autogol», ha puntualizzato Cera. Contiamoli pure, il numero resta sbalorditivo. (…) Allora non c’erano tante cose che ci sono oggi. Non sapevamo il minutaggio esatto del possesso palla in Juve-Cagliari. Né ci dicevano se una punizione di Riva andava a 107,4 o 112,6 km/ora. E quel colpo di testa, in tuffo, di Gigi alla Germania Est, quando Brera scrisse che la rete si gonfiò come investita da uno squalo, a che velocità andava? E infine, con tutto il rispetto, chi se ne strafotte? I numeri non dicono tutto, a parte quell’11. I numeri dicono poco. I numeri non spiegano per quali strade calcistiche o umane alchimie si arrivi a realizzare l’utopia di uno scudetto a Cagliari. Alla faccia del clima, dello scirocco, delle trasferte disagevoli, della forza anche politica (ci siamo capiti) degli squadroni del Nord.
Tra le alchimie umane bisogna mettere la Sardegna che sicuramente non è la stessa di quegli anni. (…) Sul culto dell’ospitalità, primu s’istranzu, mancari malu, diceva mio padre nel dialetto di Ghilarza, che spero di aver reso senza errori. Prima lo straniero, o l’estraneo, anche se è cattivo. Invece penso che il sardo, specie di mare, sia diffidente, e vorrei vedere, con tutte le fregature che ha preso, le promesse non mantenute, le speranze tradite. La diffidenza dura il tempo di capire chi sei tu che arrivi da su continente, e poi se superi l’esame la sua casa diventa la tua casa.
Riva, per sempre hombre vertical, lombardo ormai più sardo dei sardi, ha una storia sua, piena di dolori e risentimenti, quando mette piede a Cagliari. È solo e ringhioso come un cucciolo di lupo. Di famiglie, di case che si aprono, ne trova tante. E non vuole più muoversi da Cagliari. Ma gli altri? Avevano altre storie alle spalle, meno dolorose, eppure più delle metà di quelli dello scudetto è rimasta a Cagliari anche dopo. Quasi mezzo secolo dopo è ancora lì, e qualcosa vorrà dire.
Gianni Mura