la Repubblica, 7 novembre 2014
Per sconfiggere il Parkinson l’ultima frontiera sono i neuroni umani preparati in laboratorio dalle staminali. Così i circuiti cerebrali colpiti nelle malattie neurodegenerative potranno essere ricostruiti
L’ipotesi di rimpiazzare i neuroni persi in una specifica malattia neurodegenerativa, il morbo di Parkinson, con nuovi neuroni preparati in laboratorio, è da oggi più vicina. Su Cell Stem Cell, i colleghi dell’Università di Lund, in Svezia, guidati dalla giovane scienziata Malin Parmar, dimostrano di poter ottenere in laboratorio i neuroni dopaminergici che degenerano nel Parkinson, partendo da staminali embrionali umane. Le studiano da anni con il consenso e il supporto dei loro governi e quello consapevole e correttamente informato dei loro concittadini. Le derivano da blastocisti soprannumerarie, embrioni umani in un piattino di laboratorio, composti da poche centinaia di cellule indifferenziate, prodotti da fecondazione in vitro e non utilizzati dalla coppia, che li destina alla ricerca invece che alla distruzione. Dalle staminali embrionali si possono ottenere tutte le cellule dei nostri tessuti. I ricercatori hanno capito come “convincerle” a diventare specificamente i neuroni dopaminergici che muoiono nel Parkinson. In tanti ci avevano provato prima e hanno ottenuto neuroni: ma non erano “autentici”.
Mancavano di alcuni “vestiti” specializzati, e dopo trapianto erano poco efficaci. C’era anche il rischio che potessero sfuggire al controllo e proliferare. Oggi questi due problemi sembrano risolti. Si è quindi affrontato il terzo. Possono quei neuroni umani “autentici”, ottenuti in un piattino di laboratorio, funzionare dopo trapianto nel modello animale di Parkinson come se fossero i neuroni “naturali”? E saranno in grado di ristabilire le connessioni e i circuiti in un tessuto danneggiato dalla malattia? Sta qui l’avanzamento conoscitivo svedese. I colleghi dimostrano che le cellule trapiantate funzionano così bene da generare una straordinaria rete di ramificazioni nervose che si dipartono dai nuovi neuroni innestati. Nell’esperimento le cellule trapiantate sono umane, mentre il tessuto ospite è ratto. Utilizzando un marcatore per cellule umane è possibile vedere questa fitta rete di connessioni che irradiano le aree cerebrali corrette e distanti. Questo significa la possibilità di ricostituire i circuiti cerebrali lesionati dalla malattia.
Il lavoro del gruppo di Malin Parmar prova che è possibile ottenere in laboratorio, neuroni umani, bellissimi, veri e della tipologia desiderata (per quello che la ricerca ci consente di dimostrare), che funzionano esattamente come ci aspettiamo. Di neuroni il nostro cervello ne contiene centinaia di tipologie diverse, ciascuna con una sua storia e una funzione. A secondo dei tipi di neuroni che muoiono si hanno diverse malattie. È la ricerca di base che ci spiega come generarne di nuovi partendo dalle staminali. È dalla ricerca di base che ci aspettiamo le conoscenze su come si sviluppano, per esempio, i neuroni dei sei strati della corteccia cerebrale, che stanno nella parte più dorsale del cervello. O i neuroni più basali, che muoiono nella malattia di Huntington o nel Parkinson, o quelli più posteriori, quelli motori, che degenerano nella Sclerosi Amiotrofica Laterale. Abbiamo imparato che via via che queste cellule si specializzano acquisiscono abiti aggiuntivi, che tracciamo, riconosciamo, studiamo. Queste conoscenze le trasferiamo poi in vitro. E sono state applicate a un tipo particolare di staminale, quella capace di rispondere a queste sollecitazioni come nessun’altra staminale ha mai saputo fare: la staminale embrionale umana.
Aggiungiamo a queste cellule in vitro quella manciata di “morfogeni” che la ricerca di base ci consegna con dettagli inimmaginabili fino a pochi anni fa, e che scopriamo al timone della formazione del nostro cervello. Ed è in base alle loro combinazioni e dosi che succede qualcosa di meraviglioso: le staminali embrionali si specializzano in neuroni dorsali o basali o più posteriori come se seguissero una mappa stradale in grado di portarle verso la giusta destinazione e funzione. È ancora un enigma come questo accade. Ma capirlo vale la vita di studio di un ricercatore, anche se lui o lei non dovesse mai arrivare a curare alcunché, perché consegnerà altre solide prove a chi raccoglierà il testimone.
Stiamo parlando di momenti entusiasmanti per la ricerca di base in medicina rigenerativa. Il caso svedese dimostra quanto la strada della scienza sia lunga e difficoltosa, e quanto importante sia spiegare le conquiste, la fatica, i fallimenti e il tempo necessario per studiare ciò che ancora non si conosce. E che si lavori come scienziati per mantenere credibilità e fiducia. Bisogna continuare a parlare ai cittadini, piedi per terra ed “ego” sotto controllo. Ai cittadini e alla politica. Non basta studiare una cellula o un atomo o il Big Bang in laboratorio per essere scienziati: la scienza è per tutti. Forse, così facendo, un giorno anche noi avremo un Governo e un Parlamento che sapranno investire nella conoscenza, incorporando scienza e innovazione nelle maglie legislative. Lo avremo tanto prima quanto più i cittadini saranno informati e potranno far sentire la loro voce e il loro supporto alla scienza, quella che studia per conoscere, capace di catalizzare cambiamenti. Ambiziosa, visibile, dimostrata, pubblica e di tutti.