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 2014  novembre 07 Venerdì calendario

Lussemburgo e tasse, lo scandalo che inguaia Jean-Claude Junker. Il neo capo della Commissione europea sotto accusa per le agevolazioni fiscali concesse a centinaia di aziende (anche italiane) quando era a capo del Granducato, un vero paradiso fiscale che attira clienti da tutto il mondo

Il meglio dai giornali di oggi sullo scandalo per i favoritismi fiscali in Lussemburgo che sta travolgendo il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker.
 
«C’è un buco nero nel cuore dell’Europa, un piccolo Stato grande come la provincia di Bergamo, ma con la metà degli abitanti, appena 550 mila. È il Lussemburgo, membro fondatore dell’Unione europea, stretto tra Francia, Germania e Belgio. È un Paese ricco, ricchissimo. La sua fortuna sono le tasse. Quelle degli altri. Nel senso che da almeno mezzo secolo è diventato la meta preferita delle aziende alla ricerca di un trattamento fiscale di favore» [Paolo Biondani, Vittorio Malagutti e Leo Sisti, l’Espresso].
 
Nella prima settimana del suo mandato da presidente della Commissione europea, il lussemburghese Jean-Claude Juncker è già in bilico, dopo che ieri è scoppiato lo scandalo del LuxLeaks. Si tratta di un’inchiesta giornalistica che tiene insieme 28 mila pagine di documenti raccolti da un network giornalistico americano, The International Consortium of Investigative Journalists, e pubblicato in contemporanea da 26 testate (per l’Italia, l’Espresso) [Marco Zatterin, Sta].
 
L’inchiesta, durata sei mesi, ha messo in luce un’abitudine, probabilmente legale ma incredibilmente radicata: circa 550 accordi fiscali a favore di oltre 340 società tra il 2002 e il 2010. Tra queste vi sarebbero Pepsi, Ikea, FedEx o Accenture, ma anche 31 società italiane o con attività in Italia. Gli accordi fiscali scoperti dal Consorzio internazionale di giornalisti d’inchiesta riguardano intese messe a punto dalla società di consulenza PwC. È possibile che ve ne siano molte altre [Beda Romano, Il Sole 24 Ore].
 
Il sistema funzionava, e ancora funziona, secondo un tacito, reciproco accordo. Le aziende spostano nel Granducato flussi finanziari per centinaia di miliardi di dollari e in cambio hanno la possibilità di un trattamento tributario d’eccezione. A farne le spese sono i Paesi d’origine delle società, costretti a rinunciare al gettito sugli affari dirottati nel paradiso fiscale [Paolo Biondani, Vittorio Malagutti e Leo Sisti, l’Espresso].
 
«Certo è che per un paradossale scherzo della storia, alla presidenza della Commissione europea, chiamata a serrare le fila nella lotta ai paradisi fiscali, è approdato all’inizio di novembre Jean Claude Juncker, primo ministro del Lussemburgo dal 1995 al 2013, dominus e in parte artefice di un sistema fiscale che ha consentito al Granducato di arricchirsi alle spalle del resto del mondo» [Paolo Biondani, Vittorio Malagutti e Leo Sisti, l’Espresso].
 
Nel marzo scorso Juncker aveva rilasciato un’intervista dai toni accesi al settimanale tedesco Der Spiegel, in cui respingeva sospetti e attacchi. «L’affermazione dei socialisti francesi che io favorisco attivamente l’evasione fiscale è un insulto contro il mio Paese e la mia persona». A luglio, però, mentre si avvicinava il voto per la nomina al vertice della Commissione, i toni di Juncker si sono addolciti e in un discorso tenuto a Bruxelles ha promesso di «combattere evasione ed elusione fiscale (…) per introdurre principi etici nello scenario fiscale europeo» [Paolo Biondani, Vittorio Malagutti e Leo Sisti, l’Espresso].
 
Al centro dell’inchiesta gli «accordi fiscali anticipati» (tax ruling), pratica legale che permette di conoscere in anticipo le imposte da pagare e ottenere garanzie giuridiche. Il sistema influenza anche la ripartizione dei profitti e consente, a chi vuole, di minimizzare il gettito. Ad esempio, la britannica Dyson, che produce aspiratori vari, risulta essere riuscita a ridurre gli esborsi sino all’1% dei guadagni [Marco Zatterin, Sta].
 
I protocolli scoperti descrivono architetture finanziarie molto complicate, con rimandi a testi di legge e intese internazionali. Molto spesso si fa ricorso a strumenti finanziari ibridi – è il caso dei prestiti infragruppo – che in sostanza permettono di schivare le tasse sia nel Paese di origine di chi li utilizza, sia, in pratica, in Lussemburgo [Paolo Biondani, Vittorio Malagutti e Leo Sisti, l’Espresso].
 
Come già accennato, l’inchiesta “Luxemburg Leaks” è il risultato del lavoro di 80 cronisti di 26 Paesi, che fanno parte dell’International Consortium of Investigative Journalists (Icij), una rete di reporter che collaborano su progetti di giornalismo investigativo. Per sei mesi hanno spulciato 28.000 pagine di documenti riservati che provano le agevolazioni sulle tasse garantite dal Lussemburgo a oltre trecento aziende [Viviana Mazza, Cds].
 
Icij è stato fondato nel 1997 e fa parte dell’organizzazione no-profit Center for Public Integrity. All’inizio lo staff lavorava direttamente alle storie, ma negli ultimi tre anni il modello scelto è stato quello di fornire gli strumenti a giornalisti esterni (160 in totale, in oltre 60 Paesi) [Viviana Mazza, Cds]
 
«Tra scontri e lanci di lacrimogeni, a Bruxelles ieri hanno manifestato in 100.000 contro il rigore, i tagli per 11 miliardi del nuovo governo di Charles Michel. Le Soir, il principale quotidiano francofono del Paese, titolava a cinque colonne: “Così il Lussemburgo aggira il fisco belga”. Sta quasi tutto qui, tra le tensioni sociali anti-rigore che aumentano in tutta l’eurozona, fragilizzata da recessione, deflazione e disoccupati record, e le rivelazioni del LuxLeaks sul quasi azzeramento delle tasse a favore, non certo dei cittadini, ma delle società con sede nel Granducato, il nuovo paradigma esplosivo che potrebbe investire l’eurozona» [Adriana Cerretelli, Il Sole 24 Ore].
 
Reddito pro capite in Lussemburgo: oltre 100 mila dollari, il più alto del mondo, quasi il triplo di quello italiano [Paolo Biondani, Vittorio Malagutti e Leo Sisti, l’Espresso].
 
Il Lussemburgo, più holding che abitanti [Mario Gerevini, Cds].
 
Dei 326 miliardi di investimenti stranieri diretti arrivati in Europa nel 2013, ben 240 sono passati per il Granducato [Marco Zatterin, Sta].
 
La crema dei più grandi gruppi mondiali è di casa in Lussemburgo, dove si mettono a punto piani per cospicui finanziamenti. La palma va a Procter & Gamble (Gillette, prodotti di bellezza, igiene orale, profumi): quasi 80 miliardi di dollari a suon di certificati che coinvolgono anche la filiale italiana di Roma. Segue l’americana Abbott Laboratories (prodotti farmaceutici): oltre 50 miliardi di dollari. E, ancora, tra i tanti protagonisti, Bayerische Landesbank (l’ottava banca tedesca): 500 milioni di euro; Carlyle Group (private equity): 240 milioni di sterline e 150 milioni di dollari; Eon Group (tedesco, energia, gas): 2,55 miliardi di euro; Gazprom (la più grande compagnia russa, gas): 4 miliardi di dollari; Glaxo Smith Kline (farmaceutica): 6,25 miliardi di sterline; Heinz (Usa, food company): 5,7 miliardi di dollari; il fondo Permira, che controlla Hugo Boss insieme ad alcuni membri della famiglia Marzotto: 284 milioni di sterline [Paolo Biondani, Vittorio Malagutti e Leo Sisti, l’Espresso].
 
«Oggi il Granducato è sotto assedio. Paesi europei come Francia, Germania, Italia e anche gli Stati Uniti, sembrano decisi a chiudere le falle dell’evasione e dell’elusione fiscale internazionale. D’altra parte le cifre parlano chiaro. Ogni anno dai conti dell’Unione spariscono 1.400 miliardi di euro. Pochi mesi fa la Commissione di Bruxelles si è scagliata contro il meccanismo dei “tax ruling” mettendo sotto inchiesta Amazon e Fiat Finance, accusate di aver spuntato un aiuto di Stato illegale» [Paolo Biondani, Vittorio Malagutti e Leo Sisti, l’Espresso].
 
«Raccontano i vecchi frequentatori delle banche e delle fiduciarie lussemburghesi che una volta per strada c’erano le macchinette tritacarte. Tedeschi, francesi, belgi e molti italiani erano clienti abituali degli studi professionali e delle finanziarie del Granducato. Poi la tecnologia si è evoluta e con essa la finanza.
Ma il Lussemburgo è sempre rimasto lì in mezzo: crocevia di grandi capitali, non sempre tracciabili né puliti, un paradiso fiscale in giacca e cravatta, ben più sofisticato ed efficiente delle «rozze» Cayman o di Panama o delle Isole Vergini Britanniche. E ben più aderente alle norme internazionali» [Mario Gerevini, Cds].
 
Per stare in Italia, la Luxottica, la multinazionale fondata da Leonardo Del Vecchio, è controllata dalla lussemburghese Delfin che cinque anni fa ha chiuso un contenzioso con il Fisco versando oltre 200 milioni. Qualcuno, poi, ricorderà che la famosa scalata alla Telecom di Roberto Colaninno ed Emilio Gnutti venne lanciata radunando la cordata intorno alla società Bell, sede nel Granducato. E quando vendettero Telecom alla Pirelli di Marco Tronchetti Provera fecero un’enorme plusvalenza lussemburghese. Anche in quel caso il Fisco italiano chiese il conto [Mario Gerevini, Cds].
 
I regimi societari iper-agevolati in Europa non sono affatto vietati. I tentativi di armonizzare la pressione fiscale su questo fronte sono finora miseramente falliti, nonostante i ricorrenti assalti di Germania e Francia. Risultato: la concorrenza tra i vari sistemi fiscali è prassi lecita e consolidata, che ha tra l’altro l’implicito vantaggio di stimolare il calo della pressione in Europa: oggi supera di circa 10 punti quella degli Stati Uniti, per non parlare degli emergenti. Un evidente handicap competitivo. La questione che il nuovo responsabile Ue alla Concorrenza, la danese Margrethe Vestager, dovrà dirimere è stabilire se le agevolazioni concesse in Lussemburgo, come in Irlanda e Olanda, contengano o no aiuti pubblici illeciti in quanto distorsivi della concorrenza sul mercato interno [Adriana Cerretelli, Il Sole 24 Ore].
 
A metà ottobre, i ministri delle Finanze dei 28 Paesi Ue hanno trovato un compromesso sullo scambio automatico di informazioni fiscali. E per la prima volta anche il Lussemburgo si è impegnato a collaborare con le autorità degli altri Stati membri impegnati in indagini sull’evasione tributaria. L’accordo non entrerà in vigore prima del 2017 e alcuni esperti nutrono dubbi sulle modalità con cui l’intesa di massima raggiunta a livello politico sarà poi tradotta in norme concrete. È la prima volta, però, che il segreto bancario viene messo in discussione dai Paesi, come anche l’Austria, che all’interno della Ue avevano fin qui trovato ogni scappatoia legale per non allinearsi alla posizione comune [Paolo Biondani, Vittorio Malagutti e Leo Sisti, l’Espresso].
 
Juncker «è una personalità imprevedibile, la cui concezione dell’Europa si fonda su unico principio: il dominio della coppia franco-tedesca», spiega un diplomatico. Prima della sua nomina a presidente della Commissione europea, quando David Cameron aveva annunciato il suo voto contrario definendolo un «uomo del passato», i tabloid britannici lo avevano descritto come un pericoloso federalista, che beve cognac a colazione ed è pronto a cacciare il Regno Unito dall’Unione Europea [David Carretta, Il Messaggero].
 
Figlio di un sindacalista arruolato a forza nella Wermacht tedesca durante la seconda guerra mondiale, Juncker è un democristiano vecchio stile, con una forte attenzione al sociale. Dalla battuta facile, il nuovo presidente della Commissione è particolarmente apprezzato da giornalisti e funzionari di Bruxelles. Ma nella sua lunga storia politica – 18 anni come primo ministro, gran parte dei quali ha conservato per sé il portafoglio delle Finanze – non ha esitato a compromettere i suoi valori per fare ricco il Gran Ducato o compiacere gli azionisti di maggioranza della Ue: Germania e Francia [David Carretta, Il Messaggero].
 
Dopo aver contribuito a redigere il trattato di Maastricht, nel 2003 Juncker votò per permettere a Parigi e Berlino di violare il Patto di Stabilità. Ricompensato con la presidenza dell’Eurogruppo nel 2004, chiuse entrambi gli occhi sui trucchi di bilancio della Grecia, salvo poi acconsentire alle insistenti richieste di austerità che venivano dal Nord Europa per il Sud spendaccione [David Carretta, Il Messaggero].
 
Ora Juncker si deve dimettere? Nell’Europarlamento il leader dei liberali, l’ex premier belga Guy Verhofstadt, ha chiesto che la Commissione europea si presenti «immediatamente» all’Assemblea Ue per spiegare se i favoritismi fiscali denunciati dal Consorzio internazionale di giornalisti investigativi di Washington «rispettano la legge europea» e se «il sistema scelto dal Lussemburgo è legale o meno». Il presidente degli eurodeputati socialisti Gianni Pittella ha sollevato un problema di «credibilità di Juncker» perché «deve mostrare da che parte sta: dalla parte dei cittadini o degli evasori fiscali delle aziende?» [Ivo Caizzi, Cds].
 
L’ex premier lussemburghese è rimasto in silenzio, cancellando la partecipazione a una conferenza. Il suo portavoce ha ricordato che la Commissione «sta già agendo» contro Irlanda, Olanda e Lussemburgo per aiuti di Stato illegali relativi a favoritismi fiscali. [Ivo Caizzi, Cds].
 
«Se si guardano i numeri, probabilmente ha fatto più danni alle finanze pubbliche europee Juncker che qualunque evasore fiscale. Eppure non se ne possono pretendere le dimissioni, come fa per esempio il Movimento Cinque Stelle. Perché era tutto noto: basta leggere la brochure promozionale del Luxembourg Stock Exchange, la Borsa del Granducato, per vedere che questo ricchissimo staterello non ha pudore nel presentarsi come uno snodo fondamentale per le imprese che devono eludere il fisco. Perfino Finmeccanica ha usato il Lussemburgo per pagare meno tasse allo Stato italiano, suo primo azionista (il nuovo management spiega che in futuro non succederà più)» [Stefano Feltri, il Fatto]
 
«Quando il Partito Popolare e poi il Consiglio e il Parlamento europeo hanno individuato in Jean Claude Juncker il successore di José Barroso alla Commissione, hanno applicato una specie di condono fiscale. O almeno morale. L’Europa accetta al suo interno quello che gli economisti chiamano arbitraggio fiscale o, meglio, “beggar thy neighbour” (frega il tuo vicino). La prosperità di nazioni sempre pronte a criticare la bassa competitività dei Paesi mediterranei indebitati si fonda quasi esclusivamente sulle furbate fiscali» [Stefano Feltri, il Fatto].