6 novembre 2014
Così Obama ha mandato in frantumi la sua coalizione, ha perso consensi nonostante l’economia americana sia in crescita e ora si trova ad essere un’anatra azzoppata con il Congresso contro e due anni di governo difficilissimi
Il meglio dai giornali di oggi sulla vittoria del Partito repubblicano nelle elezioni americane di Midterm e sulla crisi di consenso di Obama.
«Rabbia dei ceti medi bianchi e del proletariato nero che si sentono esclusi dai benefici di una ripresa economica che, pure, è in corso. Diffuso pessimismo sulle prospettive future. Delusione per le promesse mancate di Obama, la sua carenza di leadership in America e sulla scena internazionale. Fastidio per la sua cerebrale lontananza dalla gente e dal suo stesso partito. C’è tutto questo e anche altro nella pesantissima sconfitta democratica alle elezioni di Midterm: una campagna condotta senza bussola da un fronte politico che ha chiesto a un presidente poco popolare di uscire il meno possibile dalla Casa Bianca, ma che non aveva nulla per sostituire la sua celebre macchina elettorale» [Guido Olimpio, Cds].
I repubblicani invece, imparata la lezione dalla pesante sconfitta di Romney nel 2012, hanno messo in piedi un’organizzazione completamente nuova, usando in modo spregiudicato i generosi finanziamenti dei miliardari conservatori, scegliendo i loro candidati con cura ed evitando di finire a rimorchio degli estremisti dei Tea Party [Guido Olimpio, Cds].
Ora tutto il Congresso è nelle mani dei repubblicani e Obama è sostanzialmente un’«anatra zoppa». Avrà la vita dura per due anni, fino al momento in cui lascerà la Casa Bianca nel gennaio 2017 [Alan Friedman, Cds].
Per la prima volta in otto anni, il Partito repubblicano guida entrambi i rami del Congresso. Al Senato la destra ha strappato ai democratici almeno 7 seggi, uno in più rispetto a quelli necessari per ottenere la maggioranza. Nella notte, la loro prima vittoria è stata in West Virginia, dove un repubblicano non veniva eletto al Senato dal 1956. Poi è toccato all’Arkansas, che per la prima volta da 141 anni non manderà alcun democratico al Congresso. Più tardi la destra ha prevalso in Stati come l’Iowa, trampolino di lancio di Obama nel 2008, e il Colorado (impensierendo i democratici anche in vista delle presidenziali del 2016). Il partito del presidente non è riuscito a tenersi nemmeno la North Carolina, sede dell’ultima grande convention del partito [Viviana Mazza, Cds].
Obama aveva vinto nel 2008, e poi nel 2012, costruendo una coalizione fondata sulle donne, gli ispanici, i neri, i giovani millennials, i bianchi liberal più istruiti, gli abitanti delle grandi aree urbane. Paolo Mastrolilli sulla Sta: «Conquistando questi gruppi con la sua promessa di cambiamento, aveva vinto in stati repubblicani come North Carolina, Colorado, Virginia, e aveva consolidato il partito in altre regioni chiave tipo l’Iowa. Aveva cambiato la mappa elettorale degli Stati Uniti, mettendo le basi per un dominio duraturo, che poteva diventare assoluto se grazie agli ispanici fosse riuscito a riprendersi anche il Texas. Martedì notte queste pecorelle sono tornate tutte all’ovile repubblicano, o quasi, come la Virginia in bilico».
Racconta Federico Rampini su Rep: «I rapporti di forze sono cambiati in modo brutale, un aneddoto li esprime chiaramente: martedì sera quando Obama ha chiamato il nuovo leader della destra vincitrice al Senato, Mitch McConnell, questi non gli ha neppure risposto e il presidente ha dovuto lasciare un messaggio sulla segreteria telefonica. Umiliante».
Alan Friedman sul Cds: «Barack è, sì, il primo presidente non bianco, e questo è un fatto storico. Ma tutta la speranza che ha sollevato è scomparsa. C’è “Obama-Fatigue”, ovvero un sentimento collettivo di stanchezza e disinteresse per le iniziative del presidente, e di forte opposizione ad alcune politiche quali la sanità semi-universale nel pasticcio di ObamaCare o la delicatissima questione dell’immigrazione. La verità è che non c’e stato un argomento forte che ha deciso queste elezioni in America, ma un rigurgito contro un presidente visto come non particolarmente competente, un po’ leggero, pasticcione in politica estera, distaccato, indeciso e circondato da un gruppetto di fedelissimi ma deboli consiglieri. La maggioranza degli americani, compresi tanti democrats che hanno sperato di trovare in lui un vero leader, sono delusi. C’è un problema di personalità, una mancanza di empatia tra Obama e gli americani».
Un sondaggio della Cnn compiuto ai seggi martedì, dà la chiave decisiva: 70% degli americani è convinto che l’economia va male e che l’America è in declino [Federico Rampini, Rep].
Il paradosso è che l’economia degli Stati Uniti, invece, va piuttosto bene, con la creazione di milioni di nuovi posti di lavoro negli ultimi anni, una considerevole crescita del Prodotto interno lordo e un livello di disoccupazione oggi inferiore al sei per cento. Una grande parte della ripresa è dovuta alla politica della Federal Reserve, che solo ora, dopo anni passati a stampare moneta, sta per chiudere l’esperimento di Quantitative easing (Qe) [Alan Friedman, Cds].
Spiega Bill Emmott, ex direttore dell’Economist: «È vero, vista dall’Europa l’economia degli Stati Uniti sta andando molto bene. La disoccupazione è in calo, molti posti di lavoro sono stati creati e questo dovrebbe premiare l’amministrazione Obama. Ma c’è da considerare che l’aumento dei posti di lavoro non si è accompagnato ad un analogo aumento del reddito disponibile. C’è poi da tener presente che con la crisi finanziaria del 2008 e con tutto ciò che ne è seguito, molte persone sono uscite dal mercato del lavoro e hanno semplicemente smesso di cercarlo. E adesso stanno rientrando sul mercato con il miglioramento dell’economia. Di fatto, oggi i senza lavoro sono ancora più di quanti non fossero prima della crisi. Credo che occorreranno almeno altri due anni di crescita prima di tornare alla situazione pre-2008» [Gianluca Paolucci, Sta].
Poi c’è il risultato dei referendum sull’aumento del salario minimo: hanno vinto in tutti i cinque Stati dove si votava per questa misura. Cinque Stati repubblicani. Rampini su Rep: «Eppure la destra è contraria ad alzare il salario minimo per legge. I due terzi degli elettori (repubblicani inclusi) sono convinti che questa crescita economica stia andando a beneficio dei più ricchi. E tuttavia hanno dato la maggioranza a un partito che ha ricevuto colossali finanziamenti da parte dei grandi poteri capitalistici, a cominciare dai fratelli Koch che controllano un conglomerato petrolchimico».
Sul Fatto Furio Colombo scrive che «la “caduta di Obama” era prevedibile, ma non è naturale. Sto dicendo che non è il frutto tipico e sempre atteso della “stanchezza” di un presidente verso la fine del secondo mandato, che è stato avventuroso e difficile ma anche ricco di risultati. La stanchezza sembra essersi verificata sul versante degli elettori. A quanto pare, non gli perdonano di avere finito due guerre e di non averne cominciata nessuna. Circola la frase “Obama è debole”, e “c’è una mancanza di leadership”. Primo paradosso di una vicenda politica e di un esito elettorale che racconta e certifica ciò che non è. Un lungo e diffuso successo, in quasi tutti gli impegni e le promesse di Obama, viene presentato agli americani (e accettato alle urne) come un fallimento. Ma la voce che annunciava questo insuccesso era quella senza pause e senza soste di una feroce e immensamente finanziata opposizione repubblicana che sostituendo la famosa parola d’ordine anglosassone (My country, right or wrong, sostengo il mio Paese anche se sbaglia) con un’altra, più antica e selvaggia: il mio partito prima di tutto».
Stefano Pistolini sul Foglio: «Lo scampato pericolo della crisi economica ha lasciato tracce evidenti: la prima è una persistente sensazione di vulnerabilità e dunque un perenne senso di allarme e insicurezza. Lo vedi anche passeggiando in uno shopping mall: le cose non torneranno più come prima. Un tempo è finito e ne è arrivato un altro, che soffre d’invidie e nevrosi verso il passato. Barack Obama, la sua politica ragionata, le sue sistematiche strategie siedono esattamente lì, sullo sfondo di questo quadro instabile. In un certo senso lo racchiudono. Oggi la maggioranza ti dice che sì, lui e i suoi avranno pur fatto qualcosa per turare le falle, ma non erano le cose giuste o andavano fatte in modo diverso. E che poi “loro” sapevano tutto, ma intanto s’occupavano d’altro. E che tutte le questioni rimaste aperte sul tavolo dei progetti insoluti rafforzano la sensazione che il lavoro sia stato fatto male, confusamente, senza la grinta, la decisione, il killer instinct che ci vuole, quello che gli americani e i presidenti veri sanno dove trovare».
Mario Platero sul S24: «Da ieri l’era Obama è finita, il sogno del “Yes We Can” è archiviato: l’elettorato americano chiede che dal riflusso giovane/idealista – dopo le guerre e le crisi economiche del decennio scorso – si torni a un sano pragmatismo soprattutto sul piano economico. E manda alla guida del nuovo Senato repubblicano Mitch McConnell, un 72enne centrista di Louisville, nel Kentucky, il volto stesso della sicurezza e dell’esperienza. Con un rischio. Che a una promessa se ne sostituisca un’altra: “Possiamo solo accogliere con umiltà la grande responsabilità che ci ha dato il popolo americano”, ha detto ieri McConnell. Forse voleva dire “paura”, perché le risposte non saranno facili. La differenza con gli anni di Reagan è che i repubblicani non hanno davvero un “Grande Progetto”».
«L’America ha già conosciuto situazioni come queste: Ronald Reagan nel 1987-88, Bill Clinton nel 1999-2000, George W. Bush nel 2007-2008, finirono il secondo mandato con un Congresso in mano all’opposizione. Il precedente più inquietante per Obama è quello di Clinton: nell’ultimo biennio subì il processo per impeachment; e firmò una disastrosa deregulation finanziaria seminando i germi della crisi del 2008» [Federico Rampini, Rep].