la Repubblica, 6 novembre 2014
Il triste declino di Obama, il presidente che ha promesso troppo. Sei anni fa rimasero tutti abbagliati dalla sua diversità. Prima il Nobel per la pace e il discorso al Cairo, poi la disillusione
Il crepuscolo dell’uomo che prometteva troppo era già scritto nello splendore di una promessa che nessuno avrebbe potuto mantenere: quella di cambiare in meglio l’America, e magari il mondo, in qualche anno. Il declino di Barack “Yes We Can” Obama verso l’umiliazione del suo partito certificata dalla perdita della maggioranza anche in Senato è il prodotto del suo successo, è figlio dell’enormità delle aspettative che i suoi elettori, e il resto del mondo con essi, gli avevano caricato sulle spalle, prima ancora di conoscerlo.
Dopo averlo immaginato troppo grande sei anni or sono, gli avversari sono riusciti a farlo apparire troppo piccolo, nelle opposte caricature della retorica politica. Insieme abbagliati, o terrorizzati, dalla sua diversità. La felice anomalia di un uomo di colore arrivato a spezzare 226 anni di monopolio degli euroamericani non scalfito davvero neppure dal cattolico Kennedy, aveva annunciato in lui, nella moglie, in quelle bambine insieme normalissime e tanto fuori dalla norma entrate nella grande casa degli ex padroni di schiavi come Washington e Jefferson, un traguardo finalmente tagliato. Ed era invece soltanto l’inizio di una scalata.
Poiché le delusioni sono sempre proporzionali alle illusioni, specialmente per la “sinistra” e i “progressisti” facili all’ubriacarsi delle proprie parole, la parabola discendente di colui che aveva promesso di “Change”, cambiare, ed è invece stato cambiato dalla realtà, era inevitabile. Testimoniò questa irrazionale aspettativa quello stravagante Nobel per la Pace, assegnato prima ancora che il suo trasloco dalla campagna elettorale alla Casa Bianca fosse completo e che lui stesso accettò con esitazione. Accese altre speranze il discorso del Cairo al mondo arabo e all’universo islamico, spalmato come balsamo sulle ustioni lasciate dal tragico predecessore Bush jr, soltanto per scoprire quanto profonda fosse l’infezione di odio che era cresciuta sotto le cicatrici dopo la “esportazione della democrazia” in Iraq. E quanto ambigua sia un’America perennemente in oscillazione fra interventismo e isolazionismo che ripudia gli interventi militari dopo le lezioni, ma non accetta volentieri che il proprio leader dichiari, come fece lui nell’impresa libica, di voler “guidare da dietro”.
Un presidente più grande del proprio tempo fu così ridimensionato dalla realtà. Giorno dopo giorno, Obama è sembrato rimpicciolirsi fino a lasciare un nocciolo apparentemente spento, ma ancora radioattivo al punto da spingere i candidati del suo partito a distanziarsi da lui. Non lo ha puntellato neppure la resurrezione di un’economia che lui aveva trovato agonizzante nell’estate del 2008, devastata dagli otto anni di complice laissezfaire bushista di fronte alla più colossale tempesta speculativa, e all’inevitabile naufragio, che l’America avesse visto dal 1929. Sulla sua pelle, sempre troppo scura per i milioni di elettori sconvolti da quell’“usupartore”, critiche e insulti durante la campagna elettorale erano scivolati via senza mai bagnarlo, ma allo stesso modo su di lui sono scorsi via senza vantaggi i successi di una ripresa attribuiti alla Banca centrale. Secondo la logica del tifo sportivo: se la squadra vince, il merito è dei giocatori. Se perde, la colpa è dell’allenatore.
Prudenze e cautele nel dispiegare dissennatamente la potenza militare americana – «Cerchiamo di non fare niente di stupido», ordinava – sono state viste, nell’inversione ottica delle illusioni divenute delusioni, come segnali d’impreparazione, dilettantismo, spesso accidia, come se a lui, soddisfatto per l’epocale vittoria del 2008 ripetuta nel 2012, il giocattolo noioso del compromesso politico, motore di ogni governo, non interessasse più.
A Washington si infittivano le voci di una First Lady disgustata dalla melma della “politica politicante”, di una donna ansiosa di lasciare quella enorme villona bianca che si stava stringendo su di lei e sulla sua famiglia, come una camicia di forza. «Torniamo nella nostra vera casa, Barack», si diceva lei sussurrasse all’orecchio del marito nel pillow talk, il dialogo sul cuscino del letto matrimoniale privilegio delle First Lady, torniamo a Chicago, lontano dalla boccia dei pesci rossi nei quali vivono le prime famiglie sbranate dal rancore quotidiano degli avversari. Una leadership senza leader era l’immagine proiettata. Tanto più disastrosa, quanto più ormai ogni partito, nel XXI secolo, dipende per i propri successi dalla figura guida. L’Obama demolito e schiaffeggiato era naturalmente una macchietta elettorale, come lo era l’uomo gigantesco apparso nel parco di Chicago nel discorso della vittoria del novembre 2008, “greater than life”, più grande della vita. Obama era, ed è, un uomo normale proiettato in un ruolo forse troppo grande per lui. Ma molto meno catastrofico di come ora appaia dopo la rivincita – o la vendetta – di un elettorato che lo ha voluto frustare per la sua sfacciataggine e per i suoi tentativi, falliti, di rimettere in azione il motore dell’American Dream per la classe media.
In questo furioso e fruttuoso lavoro di ridimensionamento dell’immagine che ha fruttato al partito opposto la maggioranza al Congresso sta però il paradosso del suo declino. Da martedì a mezzanotte, quando la (tradizionale) batosta del partito al governo per mano del partito “fuori” alla fin dei due mandati si è definita, Obama è tornato a essere quello che lo aveva ingigantito sei anni or sono: l’outsider. Il ragazzo, molto ingrigito secondo il feroce invecchiamento del potere che logora, che non ha più niente da vincere e quindi non ha niente da perdere.
Ora tocca ai suoi nemici dimostrare quello che sanno fare. Obama potrà permettersi di puntare al sogno di ogni presidente a fine carriera, l’eredità storica. Potrà lanciare quella riforma dell’immigrazione, con inevitabile amnistia, capace non soltanto di compiere un atto di giustizia e di umanità, ma d’incassare quel voto dei “Latinos” che sempre più stringono le chiavi della Casa Bianca fra le dita. Per i repubblicani, acconsentire vorrà dire alienarsi proprio quegli elettori bianchi, anziani, spaventati, che hanno punito l’uomo nero e non vogliono certo arrendersi all’uomo “bruno”. Opporsi, significherà alienarsi il blocco elettorale oggi più rilevante e in crescita. Il volo dell’anatra zoppa, del mini-Obama rimpicciolito dopo il Super Barack, potrebbe rivelarsi più nobile, più alto di quello starnazzare che abbiamo visto, di fronte al terrorismo dell’Is, al neo-imperialismo russo del colonnello Putin, a un virus, l’Ebola, che gli è stato inconsciamente, e mai esplicitamente addebitato, per associazione etnica, visto che si è diffuso proprio nel continente del padre. A volte, e senza creare nuove illusioni, è nel momento del tramonto che la luce si fa più vivida.