la Repubblica, 6 novembre 2014
Lo scrittore americano Martin Amis, tra i delusi da Obama, dice che si è trattato di una sconfitta prevedibile e meritata. Anzi, per usare un suo termine, di una terribile disfatta: «È andata al di là delle peggiori aspettative ed è un risultato sul quale il mondo liberal dovrebbe riflettere, cosa che mi sembra non stia avvenendo»
Martin Amis appartiene alla numerosa schiera dei delusi da Barack Obama, e oggi afferma che si è trattata di una sconfitta prevedibile e meritata. Anzi per usare un suo termine, di una terribile disfatta. «È andata al di là delle peggiori aspettative – racconta nella sua casa di Brooklyn – ed è un risultato sul quale il mondo liberal dovrebbe riflettere, cosa che mi sembra non stia avvenendo». Lo scrittore britannico, da sempre un attento e appassionato osservatore della vita e della politica americana, è molto spesso negli Stati Uniti.
Cosa intende?
«Che la prima reazione è stata quella di demonizzare l’avversario, parlare del risorgere delle forze reazionarie o di prendersela con l’elettorato, colpevole di non aver compreso quanto di buono è stato fatto in questi anni, come se si trattasse di un problema di comunicazione. L’analisi che invece mi aspetto è quella sui tanti errori commessi, specie in Medio Oriente, e sull’incertezza manifestata in tante occasioni che è finita per diventare debolezza. Anche gli osservatori stranieri non sono da meno: risorge l’anti-americanismo più greve e superficiale, che condanna come irrecuperabili le stesse persone che pochi anni fa hanno votato in maniera opposta o parla di un’America che si barrica dietro le proprie convinzioni. Insomma, la necessità di comprendere è sostituita dalla volontà di accusare e trovare un capro espiatorio».
Qual è la sua lettura su questa disfatta?
«Con l’eccezione della riforma sanitaria, azzoppata nella realizzazione e certamente migliorabile, Obama ha fatto molto meno di quanto ci si aspettava. E in politica estera ha consegnato al mondo l’idea di una leadership debole o addirittura assente: ed è una cosa semplicemente inaccettabile per un cittadino americano. Questa delusione è da mettere in parallelo con le aspettative enormi che lui stesso aveva creato, grazie anche alla sua magnifica oratoria. Il titolo di un suo libro era l’”Audacia della speranza”: abbiamo visto poca audacia e le speranze sono state disattese». Anche i giornali liberal come il “New York Times” in questi ultimi tempi sono stati feroci: in alcuni editoriali si è parlato perfino di incompetenza. «Non arriverei a questo, ma l’impressione costante è che Obama sia più un teorico che un leader. Non dimentichiamo che ha un background accademico: questo non è necessariamente un bene per chi deve comandare. Alla fine del primo mandato circolava la voce che fosse depresso, e non potesse prendere medicinali. Dava l’impressione che avesse compreso che il potere, in apparenza enorme, fosse in realtà molto limitato e soggetto ad una sequenza infinita di compromessi. E, soprattutto, di non avere il talento di gestirlo per ottenere il meglio. In questi ultimi tempi si e avuta l’impressione che avesse la consapevolezza che la navigazione della corazzata che guidava potesse essere spostata solo di qualche grado. E che reagisse a questa consapevolezza con sconforto e perfino con noia».
L’accusa ricorrente è quella di non essere un “comandante in capo”.
«Se si eccettua l’uccisione di Osama Bin Laden, l’impressione è proprio questa, aggravata dalla crisi mediorientale degli ultimi anni. La risposta alla minaccia rappresentata dallo Stato Islamico è debole e oscillante».
Dove ha fallito il presidente?
«Oltre alla debolezza in politica estera, il tentativo di sanare la ferita del razzismo ha sortito risultati molto modesti, così come quello delle incarcerazioni di massa di gente di colore. Anche sull’immigrazione i risultati sono scarsi. C’è tuttavia un dato generale, che prescinde la sua presidenza: Obama sta vivendo sulla sua pelle il declino dell’America: un fenomeno ancora nella fase iniziale, e che riguarderà soprattutto le prossime generazioni, ma tuttavia sembra senza via di ritorno. Il mio paese, l’Inghilterra, ha vissuto questo trauma con dignità, salvo momenti in cui ha creduto di essere ancora una grande potenza come nella crisi di Suez nel 1956: in America sarà tutto più traumatico, considerata la promessa di un paese che esprime energia e potenza».
Si può parlare anche di declino del progressismo americano?
«Io parlerei del declino della sinistra planetaria: le prove offerte dai leader progressisti sono deludenti ovunque, e viviamo in società sempre più plutocratiche. È il denaro che comanda, come mai in precedenza, e le sinistre hanno accettato di stare al gioco, con esiti modestissimi, e, soprattutto, perdendo la propria anima. I leader tentano di differenziarsi con riforme su questioni etiche, ma questo non può essere un discrimine tra la destra e la sinistra».
Cosa salva di questi primi sei anni della presidenza Obama?
«L’Obamacare, ossia la riforma sanitaria, nonostante i compromessi che ha dovuto accettare e le troppe complicazioni burocratiche. Milioni di persone oggi godono di una copertura un tempo inimmaginabile, e la riforma ha avuto anche il merito di far penetrare nella coscienza del popolo americana un principio lontanissimo dalla sua mentalità: il fatto che il paese ti chieda di spendere una parte dei propri guadagni per la salute altrui».