La Stampa, 5 novembre 2014
Quella vacche che stanno distruggendo il Chaco paraguayano. Ogni anno gli allevamenti intensivi provocano la sparizione di 280mila ettari di alberi
TransChaco, così si chiama la strada che taglia, come una linea retta, la regione settentrionale del Paraguay: il Chaco. Una strada percorsa quasi esclusivamente da lunghi e frequenti camion carichi di bestiame destinati al macello della capitale Asunción. Qua li chiamano “gli autobus delle vacche”. In questa zona, dal clima semiarido, l’allevamento ha avuto un boom senza precedenti. La vendita di terra – soprattutto a capitali stranieri – cresce a ritmi vertiginosi. Tanto che negli ultimi mesi la regione, secondo uno studio dell’Università del Maryland, ha raggiunto il più alto livello di deforestazione al mondo, con punte che toccano i 280mila ettari l’anno. Alberi tagliati per fare posto ai bovini.
«Il Chaco Paraguayano – racconta Miguel Lovera, ex-presidente del Senave, l’ufficio governativo per la qualità ambientale e agricola – ha subito, a causa dell’espansione delle frontiere delle coltivazioni di soia, una riallocazione degli allevamenti. Sospinti dall’agrobusiness i ganaderos, gli allevatori, si sono rilocati in zone un tempo marginali, come il Chaco». Non solo: la legge “Deforestazione zero”, nata per fermare la il taglio selvaggio, ha accelerato il fenomeno. Gli allevatori, nel timore di un blocco al disboscamento, hanno disboscato a dismisura.
«La deforestazione sta avendo poi rilevanti impatti sulla fertilità del terreno», continua Lovera. La vegetazione nativa, altamente specializzata, riusciva ad isolare la superficie terrestre dall’acqua salmastra di un enorme lago sotterraneo nelle profondità del Chaco. Con il taglio delle piante invece, l’acqua piovana penetra in profondità e si mescola a quella salmastra. Questa poi riaffiora in superficie, lasciando depositi di sale che il vento spargerà per tutta l’area. Così il processo di salinizzazione termina con la desertificazione del territorio, la degradazione dell’habitat e la perdita di biodiversità.
«Oggi il Chaco Paraguayo è considerato una delle zone più a rischio siccità del continente Americano», spiega Manuel Simoncelli dell’organizzazione non governativa Coopi. Tanto da entrare a fare parte dei programmi di Preparazione ai Rischi e Disastri di ECHO, la direzione generale per gli Aiuti umanitari e la protezione civile dell’Unione Europea.
«Un tempo la popolazione era solita spostarsi in un territorio molto vasto, cercando luoghi dove vi fossero acqua e cibo in abbondanza.», continua Manuel. «Poi sono arrivate le colonie mennonite, dedite all’agricoltura e all’allevamento, e con esse sono apparsi i recinti e la proprietà privata che hanno posto fine al nomadismo degli indigeni. E infine sono arrivati i grandi latifondisti e le compagnie internazionali, dal Brasile e l’Uruguay». Addio autosostentamento. Presi nella morsa della scarsità idrica, dell’allevamento a grande scala, del disboscamento selvaggio per gli indigeni si va delineando una situazione tragica. Chi riesce lavora negli allevamenti o parte per le colonie o la capitale. «Tutti attendono la pioggia» – racconta Eladio Rojas, leader della comunità di Campo Loa. «Ma con queste condizioni è impossibile produrre qualsiasi cosa. Nemmeno la caccia è più redditizia».
«Per uscire da questa situazione Coopi ha avviato progetti per la gestione delle risorse idriche», continua Simoncelli. «Cercando allo stesso tempo nuovi mezzi di sussistenza per permettere alle comunità indigene di aumentare la loro capacità di resilienza per far fronte alla siccità e adattarsi al nuovo contesto socio-economico». In molti villaggi l’associazione sta portando avanti il progetto Chaco Rapére, per formare tecnici per costruire pozzi o insegnare gli abitanti in tecniche agricole sostenibili. Come l’agricoltura sostenibile o l’allevamento di animali da cortile. Attività che questo popolo di cacciatori e raccoglitori non praticava fino a pochi anni fa.
Eppure per Oscar Rivas, ex ministro dell’ambiente paraguaiano, la priorità è regolare il settore privato. «Le grandi corporazioni vengono in Paraguay perché lo vedono come un paese libero dalle leggi, senza restrizioni né salvaguardia ambientale o sociale, quindi un paese dove si può implementare facilmente qualsiasi cosa». Sempre a favore di un rapido guadagno, anche se il prezzo è la distruzione di un patrimonio culturale e ambientale.