la Repubblica, 5 novembre 2014
Altro che rivoluzione rosa di Abe, in Giappone sono sempre più diffusi soprusi e discriminazioni nei confronti delle donne. Stipendi sei volte più bassi di quelli dei maschi, una gravidanza vuol dire fine della carriera
La pancia di Sanako Iwamoto, al quinto mese, sporgeva già troppo. Sabato il capo è andato nel suo appartamento a Shinjuku con un mazzo di fiori da parte dei colleghi. «Temono che il bordo della scrivania ti faccia male – ha detto – da lunedì stai a casa». Segretaria modello, si è licenziata per denunciare la discriminazione delle donne che lavorano a Tokyo. Anche per Emiko Kitamura la gravidanza si è rivelata il capolinea. Ex modella, commessa in un negozio di lusso a Ginza, è stata tagliata perché il suo profilo «non rispecchia più lo stile del brand». I giornali giapponesi la chiamano matahara, all’inglese, crasi di “maternity harassment”: molestie causa maternità.
A dieci giorni dall’offensiva anti- quote rosa che travolge il governo di Shinzo Abe, lo scandalo oscura perfino il via libera di Sendai alla riaccensione dei primi due reattori nucleari nel Paese, dopo il disastro di Fukushima. L’altra faccia dell’esibita “Womenomics” è stata scoperta da Sayaka Osakabe, impiegata di 37 anni. Incinta per la seconda volta, si è sentita dire che la sua condizione «imbarazzava i colleghi». Il suo superiore le ha chiesto perché avesse deciso di «fare ancora sesso». «Il mio è un contratto a termine – dice – lo stipendio è necessario, non ho avuto alternativa: ho dovuto abortire per la seconda volta».
Scegliere tra il lavoro e la maternità, in Giappone resta un dramma per milioni di donne. Il conservatore Abe, all’ultimo Forum di Davos, aveva annunciato che «entro il 2020 il 30% dei nostri manager saranno donne». Sul Wall Street Journal ha scritto che «l’Abenomics è impossibile senza un ruolo sostanziale delle donne in economia». I media nazionali sono ora scatenati nel dimostrare che le parole del premier non rispecchiano i fatti. Il neo-governatore della capitale, Yoichi Masuzoe, ha detto che le donne non dovrebbero ricoprire incarichi politici «perché perdono l’equilibrio durante il loro ciclo mensile». Il governatore nazionalista di Osaka, Toru Hashimoto, ha confermato che «durante la guerra le donne di conforto erano necessarie per mantenere la disciplina militare». Le sopravvissute agli stupri giapponesi, in Cina e in Corea del Sud, sono insorte contro «la vergogna di chi continua a considerare la violenza come un diritto».
Un appello online per rendere il sessismo un reato, in poche ore, è stato firmato da oltre diecimila persone. «Sesso e violenza – dice la leader delle femministe Chizuko Ueno – restano il modo con cui le giapponesi fanno dolorosamente conoscenza con il mondo». La svolta dei primi di settembre è già dimenticata. Shinzo Abe aveva rivoluzionato il suo governo, portando cinque donne al vertice dei ministeri, come Koizumi nel 2006. «Voglio aiutare le donne – aveva detto – a rompere la cupola di cristallo che le opprime». Il suo partito, come i democratici, non pensano evidentemente che sia opportuno. Yuko Obuchi, neoministra dell’Economia e simbolo del riscatto delle donne nel Paese, è stata costretta a dimettersi. È accusata di aver speso 246 mila dollari di fondi elettorali in cosmetici e regali. Nel 2009, già al governo, era stata la prima giapponese a osare partorire durante un mandato politico. Subito fuori anche Midori Matsushima, ministra della Giustizia. È imputata di aver donato ventagli agli elettori, ma pure di aver indossato una sciarpa nella Camera Alta e di vestire di rosso anche al lavoro. Si è salvato invece Yoichi Miyazawa, successore di Yuko Obuchi da pochi giorni. Il ministro di Industria e Commercio risulta aver saldato con soldi pubblici un conto di 170 euro in un locale sadomaso di Hiroshima. Le ragazze girano in biancheria intima, i clienti possono legarle e frustarle. Miyazawa ha detto che si è trattato di «un errore» dei suoi collaboratori, costretti a rimborsare lo Stato. «Se il caso avesse riguardato una donna – dice la manager di banca Hiroko Tatebe – sarebbe caduto il governo». Il problema, osservano anche i media, è che «se nasci donna in Giappone devi ancora scordarti il potere». Una Angela Merkel o una Dilma Rousseff qui sono impensabili. «Siamo una superpotenza – dice il docente di sociologia Masahira Anesaki – fondata su casalinghe, segretarie e commesse. Più in alto, semplicemente, le donne non vanno». Lo ha certificato l’ultimo rapporto del World Economic Forum. Nella classifica mondiale del divario di genere, il Giappone è al 104° posto su 142 Paesi, dietro al Tajikistan, ultimo nel G20. Le giapponesi, rispetto ai maschi, a parità di posizione guadagnano il 60% in meno. L’80% ha un’istruzione superiore, ma solo il 40,4% un impiego retribuito. Otto donne su dieci, appena diventano madri, sono costrette a lasciare il lavoro, solo la metà riprende quando i figli diventano indipendenti. Un quarto delle donne tra i 20 e i 40 anni è vittima del mobbing anti-maternità: 2 mila i casi ora al vaglio dell’Associazione “Matahara.net”. «Ero operaia – dice Tanaka Machi – ma appena sono rimasta incinta mi hanno spostata al turno di notte. Poi il medico mi ha consigliato di licenziarmi». Solo una madre su tre continua a lavorare, un terzo rispetto alla Svezia, e appena il 15% delle imprese nipponiche presentano una donna nel management. Solo due al top: una nel board della Japan Airlines, l’altra in quello della Panasonic.
Abe ha chiesto alle società di aumentare la presenza femminile, di coinvolgere in tutti i cda «almeno una donna», ma rischia ora di essere travolto dall’accusa di «ipocrisia». Un sondaggio rivela che per la metà dei giapponesi le donne non devono lavorare fuori di casa e che per il 63% il premier «pensa a reclutare nuova forza lavoro e all’economia, non alla parità tra i sessi». Avvertono i demografi: «L’invecchiamento della nazione è sconvolgente. Senza il 30% in più di donne occupate, a tutti i livelli, i posti dovranno essere assegnati a stranieri». Per le relatrici al Forum di Tokyo sul “gender gap”, la svolta rosa sarebbe suggerita dalla «necessità politica di scongiurare un’ondata di immigrati».
I conti però premono. «Il 56% delle giapponesi – dice Kathy Matsui, analista di Goldman Sarant’anni, chs – hanno un contratto a termine, rispetto al 21% dei maschi. Se le donne occupate stabilmente arrivassero all’80% della quota degli uomini, il Pil aumenterebbe del 15%». L’ex ministro alla sanità di Tokyo fu travolto dall’accusa di considerare le donne «solo una macchina da riproduzione». Abe, convinto che esse «potrebbero valere il 16% della produzione industriale», rischia l’imputazione di ritenerle «solo uno strumento per la crescita». La nomina delle cinque ministre doveva fermare il crollo di popolarità, dopo il disastroso aumento dell’Iva e in previsione di un altro salto della tassa sui consumi nel 2015. Risultato: più 11% in poche ore. Dopo le dimissioni coatte, lo stesso giorno, il gradimento è tornato ai minimi, sotto il 50%. «Il nesso tra offerta di pari opportunità e necessità di uscire dalla crisi economica – dice la executive di Itochu Corp, Mitsuru Chino – è il punto debole della cosiddetta Womenomics». Un equivoco che le giapponesi, decise a non restare idol e konami girls ( le teenager-cantanti o mutuate dai videogiochi che sembrano fatte in serie), non perdonano. «Quella di Abe – dice la leader del movimento femminile Takazato Suzuyo – è un’operazione d’immagine. Pensa ad una manciata di donne-manager, non alla massa anonima che sta sotto. Moglie in giapponese si dice okusan, signora della casa: una condizione che nemmeno il premier vuole concretamente cambiare».
Nel 2006, appena nato un erede maschio al trono imperiale dopo qua- Tokyo ha bloccato la storica riforma della legge salica, che avrebbe permesso alla principessa Aiko di succedere al nonno Akihito. La stessa neo-ambasciatrice Usa, Caroline Kennedy, figlia del presidente assassinato, viene guardata con sospetto dai conservatori: riservatamente definiscono il suo attivismo pro-donne «uno schiaffo ai maschi giapponesi». La terza economia del mondo non fa più figli, ha il debito pubblico al 240% del Pil e riaccende le centrali atomiche. Resta però fondata su casalinghe, commesse e segretarie: purché non si mettano in testa di diventare anche mamme.