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 2014  novembre 05 Mercoledì calendario

Dall’11 novembre torna a Milano Il lago dei cigni, lo spettacolo di Matthew Bourne che ha stravolto l’immaginario di un caposaldo della danza classica. Possenti uomini piumati al posto delle ballerine in tutù

Si fa presto a dire ambiguo. Con quel collo così, lungo e sinuoso come un serpente tentatore, le carni nere e peccaminose (secondo i bestiari medievali) sotto l’ingannevole piumaggio bianco, l’habitat acquatico, archetipo di fecondità e di potenza cosmica. È dalla Grecia Antica che il Cigno si è costruito una solida reputazione di creatura doppia e magica, simbolo di energia e grazia, bellezza irraggiungibile e sensualità ferita, metamorfosi, pulsione primordiale e tensione verso un altrove sublime.
«L’immagine del cigno è ermafrodita – scrive l’epistemologo Gaston Bachelard in L’eau et les rêves —. Il cigno è femminile nella contemplazione delle acque luminose, è maschile nell’azione. Per l’inconscio l’azione è un atto. Per l’inconscio non vi è che un atto...». Tra i simboli più arcaici, il volatile che gli antichi greci credevano iperboreo, proveniente cioè dal Nord più remoto, ha esercitato un fascino incorrotto in letteratura, pittura, musica.
Dalle altezze siderali delle Metamorfosi di Ovidio, dove trainava in volo il carro di Venere, complice del congiungimento carnale tra il mortale Adone e l’immortale Afrodite, alla Leda (perduta) di Michelangelo, alla quale si accoppiava incarnando Zeus, il Cigno è planato, a fine Ottocento, nel cuore del balletto zarista dopo aver attraversato, carico del fardello dei suoi molti significati, Germania, Turchia, Iran, Siberia, Russia e territori slavi.
E si è inabissato nelle acque incantate, senza vie di fuga, del «Lago» di Piotr I. Ciajkovskij dove ha sprigionato tutta la sua energia perturbante.
Va detto, però, che all’inizio il balletto non fu subito un trionfo, a causa delle mediocri coreografie di Julius Reisinger per la prima messinscena al Bolshoi di Mosca nel 1877. Ma quando, più tardi, il principe Vsevolojskij, direttore del Mariinskij di San Pietroburgo, incaricò il principale maître de ballet del teatro imperiale Marius Petipa di ricreare la coreografia, assistito da Lev Ivanov, nacque il capolavoro che dal 1895 continua a sedurci con le sue atmosfere lunari tardoromantiche. Dalla coreografia originale (e successive varianti più o meno canoniche) si discostano altre versioni.
Nel 1976 il coreografo americano John Neumeier trasforma, in «Illusions: Like Swan Lake», il principe Siegfried in Ludwig di Baviera, stretto tra follia, omosessualità e suicidio. Nel 1986 lo svedese Mats Ek riscrive «Swanlake» in chiave contemporanea per il Cullberg Ballet, sfruguglia nella simbologia e cambia i connotati ai cigni, calvi e androgini in tutù. È nel 1995 che l’inglese Matthew Bourne mette mano al suo «Swanlake» colpito dalla potente ferocia che emana dalla partitura di Ciajkovskij e che il balletto classico nasconde, a suo giudizio, sotto lo smagliante scintillio di donne-cigno in tutù, composte in liriche schiere dalle braccia fluttuanti.
E parte proprio dall’ipnotico dispiegarsi delle estremità superiori: «I cigni hanno un’apertura alare impressionante che in scena può essere rappresentata, con maggiore efficacia, dalla possente muscolatura maschile, piuttosto che dalla fragile grazia delle ballerine», spiega.
Da ciò la scelta di far ruotare il «Lago» intorno a un corpo di ballo di cigni uomini: «Il Principe si trova così attratto da una creatura maschile. Perciò qualcuno l’ha definito un balletto gay, non era però mia intenzione», precisa. Ai suoi cigni maschi, Bourne dona movimenti di rapace energia, tratti dall’osservazione del volo degli anatidi. E pesca a fondo negli «Uccelli» di Alfred Hitchcock, mutuando momenti della coreografia (la scena della camera da letto reale) dall’invasione minacciosa dello stormo. Altra chiave di volta è il tema del tormento di Ciajkovskij per la propria omosessualità inconfessata di cui sarebbe intrisa la partitura del «Lago»: da qui, l’idea di raccontare l’impossibilità di esprimere liberamente se stessi eleggendo la Royal Family a simbolo della rinuncia all’identità autentica per la ragion di Stato e gli obblighi di casato: «Negli anni Novanta gli scandali reali riempivano le pagine dei giornali inglesi – ricorda il coreografo —. E nella trama del “Lago” c’è proprio una regina madre smaniosa di trovare una consorte adeguata al recalcitrante figlio».
Bourne si insinua così nella psicologia di un principe indolente, imprigionato dal protocollo, che tanto assomiglia a Carlo nel triangolo con Diana e Camilla. Proiettando il «Lago» in questo sapido affresco londinese, Bourne sfoggia tutta l’arguta complessità della sua anima british, l’alto e il basso, il gossip aggressivo dei tabloid stile «Sun», l’ironia pungente alla Oscar Wilde, il teatro musicale del West End, la satira alla George Bernard Shaw che, d’improvviso, si squarcia in poesia.