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 2014  novembre 05 Mercoledì calendario

Il narcisismo dei musicisti seduti al tavolo senza parlarsi. Da Dosso a Battista ai ricordi dell’Accademia Filarmonica Romana, con Boulez e Stockhausen che si ignoravano durante i loro soggiorni

«Non più andrai, farfallone amoroso... Semplicetta farfalla al lume avvezza... Come t’han bene nomato, tenue farfalla... Ma chi le farfalle cerca, sotto l’arco di Tito»...
Alla bella mostra di Dosso a Battista Dossi nel grandioso Castello del Buonconsiglio, a Trento, Giove con una palandrana rossa e a piedi nudi, molto intento, dipinge appunto farfalle, molto allegoriche. Mentre Mercurio, nudo ma con un velo molto raffaellesco alle spalle, zittisce una famosa dama abbigliata e inginocchiata. Forse la Virtù?
Ma se il Musico possiede più Arte del Poeta – direbbe Rousseau – l’Attore sacrificherà come lo Spettatore le Parole alla Musica, trasformando lo Spettacolo in un Concerto? Tragico perché barocco, o in quanto neoclassico?
Più o meno amabili congetture (la Virtù? la Vergine?) si proponevano in fondo a una sfilata di strepitosi saloni italiani, al Kunsthistorisches Museum viennese, dove si soleva rivedere e commentare questo celebrato Dosso, donato nel 1951 dal conte Anton Lanckorònski, secondo quelle didascalie.
Ora invece questa opera del Dosso risulta venire da Cracovia, dal Castello Reale del Wawel, presso la Cattedrale. E neanche dal celeberrimo Museo Czartoryski, famoso per le sue collezioni e il Leonardo da Vinci, La dama dell’ermellino.
Forse c’è qualche imprecisione? Il ritratto battagliero di Alfonso I d’Este, che è qui, si trova anche a Modena, o sarà una copia da Battista Dossi? («Si veda soprattutto la minutezza nei particolari nello sfondo», per Longhi). E davvero Paolo Giovio intendeva ornare con ritratti illustri una dimora fiorentina, e non quella villa leggendaria sopra le credute rovine di una Villa Pliniana, su un ramo del Lago di Como? Ma costerebbe troppo un invio del Trionfo di Bacco (di Dosso Dossi) dal Museo di Bombay dove fu riconosciuto accanto a un Bonifacio Veronese fra tante Venezie poverette. A un secondo piano, dove non va mai nessuno... In tempi di crisi, certo sarà più conveniente rivolgersi alla Galleria Borghese o a Castel S. Angelo.
Davanti a tanti sederini e culetti di putti e amorini e angiolotti e bimbi grassi, difficile non commentare che evidentemente la pedofilia ci sarà sempre stata, anche prima della nozione e del vocabolo.

«Magna, Stravì, che bbono!», pare che fosse un leggendario invito di Adriana Panni, dopo aver girato fra gli ospiti nei giardini della Filarmonica, e vedendo Stravinskij un po’ perplesso, con una immensa porchetta dell’Ariccia ancora in mano. A un ricevimento in suo onore.
Deciso a non perdermi una successiva occasione, questa si presentò nei saloni dell’appartamento, piena di notevoli quadri. E lì, commemorando qualche decennale della Scuola di Darmstadt, alcuni superstiti venuti per gratitudine (Boulez, Stockhausen, Bussotti...) sedevano nei soggiorni senza parlarsi reciprocamente. E lì Boulez, circospetto: «Adrianà, qu’est-ce que c’est, cet abbacchiò?». E lei, serenamente: «Magna, a’ Pierre, che è bbono».
Ero beato. Un’altra volta, all’Argentina, una animata spettatrice commentava molto infervorata la messinscena della Carmen, di Peter Brook, che aveva disposto una scena centrale, con panche tutte intorno. E Adriana, tranquilla: «In teatro, se poffà tutto quanto se vvole. I posti, se ponno mette e se ponno togliere».
Anche a borsettate. E anche all’estero. Un musicologo raccontava i suoi ordini perché un tassista procedesse in una via pedonale e molto affollata, fino al migliore albergo di Salisburgo. E alla reception, una borsettata sul tavolo. «So’ la sora Panni». Le stanze furono trovate subito.
L’Accademia Filarmonica Romana fu una sua creatura, e il Teatro Olimpico una conquista. Ma già all’Eliseo: si ricorda ancora un Brecht-Weill interpretato da Laura Betti e Carla Fracci.
E via, poi, con Adriana e la sua energia propulsiva, attraverso differenti direttori artistici: concerti con la Grubevora, la Horne, la Ricciarelli, la Ludwig, la Lott... Trofonio, Undine, Affekte, danze con Nikolais e Alvin Ailey e Twyla Tharp e la Carlson, omaggi a Monteverdi, Benedetti Michelangeli, Rubinstein, Cardew, Kagel, Sinopoli, Schiff, Il convitato di pietra, Acis and Galatea, messe illustri in Santa Maria sopra Minerva... Ricorderò sempre Adriana, proprietaria e ridanciana, a pranzo dopo un concerto con Svjatoslav Richter: tre gradini di dislivello, e tutti lì in fila a rendere gli omaggi.

Ancora da vent’anni ci manca Paolo Valmarana, allegro e sorridente fra pareti piene di ricordi e omaggi degli amici artisti. Con un occhio notevole: mi segnalò un mirabile Piranesi (quando ancora si riteneva che valessero poco) in Türkenstrasse, a Monaco ovviamente di Baviera. Un tramonto sulla piazza del Quirinale, Monte Cavallo, con le statue colossali dei Dioscuri, Castore e Polluce, sopra un antico tempio di Quirino, ma senza ancora l’obelisco fatto installare da Pio VI.
Suo padre, il marchese Giustino, era prodigo di arguzie e facezie. Con un altro senatore vitalizio, Montale, fu munifico di chiacchiere e orpelli e una generosa colazione in un ristorante di via Frattina che non esiste più. E raccontava Goffredo Parise che traevano vecchie vesti da vecchi bauli per «fare conversazion», loro due.

Se ne è andata Magda Olivero, praticamente centenaria. E allora si può ricordare una sua apparizione al Metropolitan di New York. Luogo allora terribile. Non si cambiavano mai gli allestimenti, come tutt’ora a Vienna. E si ricordava il caso di un eccellente soprano che per consiglio del suo agente pretese una nuova mise en scène, ma non venne accontentata.
Preceduta da tutta una sua leggenda in Texas, dunque da mettere alla prova, Magda Olivero interpretò l’intero «Vissi d’arte» su un pliant con testa in giù all’indietro. E fu un canto sublime, il suo, malgrado la posa inconsulta, davanti a uno Scarpia esterrefatto. Trionfi.

Rammentando Andrea Emo... Volentieri ascoltava i commenti ad alta voce dei francesi, in piazza San Pietro. Con una preferenza: «C’est presqu’aussi beau qu’à Versailles». E fu contento quando gli riferii un giudizio di francesi davanti a un orrido allestimento, a una Biennale veneziana: «Quand-même, une présence». Come si divertirebbe, ascoltando «In Paris there is Notre-Dame, but St. Peter’s in Rome is fat»... Soltanto l’inizio dell’imbarazzante disco Valmouth, l’antico e magari deplorevole musical di Sandy Wilson, dai romanzetti di Ronald Firbank, entusiasticamente prefati da Osbert Sitwell, Ernest Jones...
Tanti anni fa, l’amico scrittore veneto Toni Cibotto mi invitò a spargere fiori sulla tomba appunto di Firbank, sepolto al Verano romano dopo la sua conversione al fasto del cattolicesimo... Facile da trovare, allora. Ma ecco qui nel disco, a proposito della leggendaria cattedrale di Clemenza: «Every transept – is a concept»... «Each mosaic – is archaic»... e via, prima di ogni sfruttamento delle pubblicità. Con lazzi e sogghigni ad ogni menzione di «rococo», ovviamente.