il Giornale, 4 novembre 2014
Ines Talignani la giudice che si è fatta suora. Allieva di Falcone, ora è Madre superiora delle carmelitane minori
«La Madre non c’è. È fuori, impegnata nelle visite a poveri e ammalati, non so quando rientrerà. Come dice? Il numero di cellulare? Ma non ha cellulari. E poi, se vuole un consiglio, non la cerchi. È molto riservata. La metterebbe in imbarazzo». La suora che risponde al telefono della Casa della Carità di Reggio Emilia non tradisce la consegna del silenzio. D’altra parte Ines Talignani, superiora delle carmelitane minori, non ha mai derogato alla regola della discrezione. Specie da quando ha smesso la toga per indossare l’abito religioso.
C’è una data cerchiata in rosso sul calendario della coerenza: 15 ottobre 1992. L’odore acre del tritolo impastato col sangue impregna ancora di sé l’aria di Palermo, Capaci e via D’Amelio buchi neri che risucchiano la coscienza nazionale. Sotto il cielo plumbeo di Sicilia il sostituto procuratore Talignani prende in mano la sua vita e la rivolta come un calzino. La giudice ragazzina, a chiamarla per come nel 1991 l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga aveva definito i magistrati che - freschi di concorso - venivano spediti a combattere le cosche, lascia le aule di giustizia. A 32 anni entra in convento. Con sé porta la sua storia: l’infanzia e la gioventù tra Brescello e Scandiano, segnate dalla morte del padre. La caparbietà della madre, Riccardina Landi, bidella di gran cuore e tanta dignità. La licenza liceale al classico e la laurea in giurisprudenza. Il corso di formazione al Csm, sotto la guida di Giovanni Falcone, e poi il biennio da uditore giudiziario (alla Corte d’Appello di Bologna) ed il primo incarico, nel 1989: pm a Caltanissetta, applicato alla Procura di Gela. Ad occuparsi di reati ambientali. Quel giorno d’ottobre del ’92, però, del pm Talignani si perdono le tracce. Il magistrato emiliano straccia il trasferimento a Piacenza, appena ottenuto, e taglia i ponti col passato. Nel 1995 la professione di fede, nel palasport reggiano gremito manco fosse un concerto rock. La dea Giustizia cede il passo a Dio. Tutt’attorno, nel tempo, solo il silenzio. Quello della fede, e quello della riservatezza. Soltanto il secondo, mai il primo, infranto di tanto in tanto, ma lontano dalle platee dei grandi media, quasi sempre sui fogli diocesani, al più nelle cronache locali. Come l’altro giorno, quando s’è concessa una chiacchierata coi cronisti della Gazzetta di Modena. «Non ho scelto questa vita per scappare dall’altra» ha spiegato. «Ci sono due momenti che si sono intrecciati ed hanno determinato il mio percorso. A Scandiano con un altro ragazzo ci occupavamo dei giovani e abbiamo incrociato la realtà delle Case della carità. A quel punto avevo già vinto il concorso in magistratura e stavo cominciando i due anni a Bologna, ma poi questa vocazione è tornata a bussare».
E lei ha aperto. Senza cancellare la parentesi sicula e «gli omicidi di Falcone e Borsellino, veri e propri atti di guerra allo Stato: partì l’operazione “Vespri siciliani” e ho nitido il ricordo del carrarmato dell’esercito nel piazzale del Tribunale». In linea con quanto già nel 1994 confidava al mensile Città Nuova: «Il mio lavoro mi piace, mi è sempre piaciuto. Mi manca anche. Sono rimasta in Sicilia fino all’ultimo, per l’importanza di quello che stavo facendo e perché la mia non sembrasse una fuga dal mondo». Il mondo nel quale ha scelto di rimanere, semplicemente cambiando prospettiva: «Non è che uno smette di combattere la mafia solo perché si fa suora», diceva nel 1995 ai redattori del sito prayerpeghiera.it: «La mafia è in me, il male è in me, l’omertoso e il convivente col male è in me. Questa battaglia quotidiana si combatte con la preghiera e col lavoro». Un esempio, quasi una lezione, per i professionisti dell’antimafia tutta chiacchiere, distintivo e riflettori.