La Stampa, 4 novembre 2014
«Sembrerà naif, ma siamo nell’Unione perché abbiamo scelto di essere una cosa sola in molti aspetti». Parla Federica Mogherini, neovicepresidente della Commissione Ue e Alto Rappresentante europeo per la Politica estera. «Inizio da Gaza e Tel Aviv», ma sul suo tavolo ci sono anche il dossier ucraino, la Siria, la Libia, la Germania... Si occuperà di tutte queste questioni ma «guardando alla luna e non al dito»
L’ufficio all’undicesimo piano di Palazzo Berlaymont è privo di ornamenti, se non per un vaso di rose bianche striate di rosso. C’è l’asta e non la bandiera, un mobile, tre tavoli, un televisore, una confezione di succo di mele, qualche bottiglia d’acqua non gasata. «Siamo appena arrivati», sorride Federica Mogherini, da sabato vicepresidente della Commissione Ue e Alto Rappresentante europeo per la Politica estera. Oltre la grande finestra lo sguardo si perde sino alle sfere dell’Atomium che brillano nel cielo di piombo. Non si vede l’edificio del Consiglio, sede dei governi di cui l’italiana sarà portabandiera senza che nessuno – nelle capitali – abbia sinora davvero dimostrato la volontà di disegnare a Bruxelles una strategia diplomatica unica da tenere nei confronti del resto del Mondo.
Missione difficile e priva di rodaggio, del resto è la cronaca che disegna l’agenda. Il dossier ucraino, anzitutto, con le sue «cosiddette elezioni» nelle regioni di Donetsk e Lugansk che «rendono la situazione più complessa di quanto non fosse ieri», con l’atteggiamento accondiscendente dei russi e la necessità di tenere in vita il processo di Minsk, perché altrimenti «sarebbe difficile, o impossibile, ripartire daccapo». Poi la questione palestinese, con l’annuncio della missione venerdì fra Tel Aviv e Gaza, e la convinzione che si stia presentando «un’opportunità unica per mettere allo stesso tavolo attori che non hanno condiviso interessi comuni». Sfida molto ambiziosa: «Mi dicono che tutti sentono il bisogno di avere l’Ue come interlocutore comune; per questo partiamo da qui».
Saranno certo cinque anni «difficili», concede Federica Mogherini, 41 anni, «ottimista», otto mesi «formidabili» alla Farnesina, fortissimamente voluta alla Commissione Ue dal premier Renzi per rimettere un volto italiano al centro della piattaforma diplomatica continentale. Succede alla britannica Ashton, parecchio criticata, spesso ingiustamente. Ha deciso di trasferirsi con la famiglia a Bruxelles e prendere una casa. «Sono qui per essere qui», assicura, e per non lasciare nulla di intentato nell’impresa di dare davvero all’Europa una sua politica estera. «Abbiamo valori comuni, che sono facili e talvolta anche “gratis” – ha raccontato nella prima intervista della nuova stagione – ma metterei più l’accento sull’interesse comune. Quello alla stabilità e alla pace, in Medio Oriente come in Ucraina. L’interesse di trovare soluzioni condivise e coordinate, dicendo la verità ai cittadini».
Signora Mogherini, partiamo da Kiev. L’atteggiamento ambiguo di Putin è una provocazione?
«In settimana ho sentito il presidente ucraino Poroshenko e il ministro russo Lavrov. Da febbraio si è avuta un’escalation sul terreno seguita da numerosi tentativi di soluzione diplomatica. Da Ginevra sino a Minsk, dove si sono trovate ragioni di speranza, col primo protocollo accolto da tutti. Ora vorrei verificare se questa linea di dialogo è ancora aperta».
Lo è?
«Le parole di Mosca sono molto diverse dalle nostre. Per noi il voto è illegittimo e illegale. D’altro canto, la Russia ha parlato di “rispetto” e non di “riconoscimento”, il che potrebbe far supporre margini di manovra».
Ritiene possibile una stretta sulle sanzioni contro Mosca?
«La questione è sempre sul tavolo dei ministri degli Esteri Ue. Possono essere sospese, diminuite, rafforzate. È chiaro che funzionano dal punto di vista economico. Il punto è sino a dove hanno impatto sul sistema politico russo e sulla sua attitudine verso la crisi. Dobbiamo capire se la finestra di Minsk può portare risultati o no. È una questione aperta, la cui risposta è soprattutto in mano ai russi».
Che succederebbe se il processo Minsk dovesse fallire?
«Credo che permanga una sufficiente volontà politica per andare avanti – di certo in Ucraina, dove ci hanno lavorato molto –, ma dobbiamo misurare la disposizione dei russi. Prima di gettarlo via, conterei sino a centomila. Sebbene sia difficile e realizzato in parte, non vedo alternative politiche»
Gli analisti dicono che la politica estera europea la conduce Angela Merkel. Vero?
«Da tempo Berlino ha una posizione centrale, anche se gli altri non sono “meno centrali”. Con la loro storia e il loro peso, i tedeschi possono avere un ruolo importante. La mia ambizione è che queste iniziative nazionali, o di gruppi di Paesi, diventino un qualcosa condiviso da tutti. Mai e poi mai una sola politica nazionale potrebbe sostituirsi a un’azione dei Ventotto».
Spostiamoci in Medio Oriente. La Svezia riconosce la Palestina. L’Europa va ancora in ordine sparso?
«Il riconoscimento è una prerogativa degli Stati, non rientra nelle competenze dell’Ue. Ciò non toglie che ci sia un potenziale politico nelle mani dell’Ue se sarà unita. L’obiettivo primario è uno Stato palestinese, perché allora potremmo discutere su cosa si può effettivamente riconoscere».
Sta pensando a una nuova conferenza?
«Si convoca una conferenza solo quando sai come va a finire. Per questo il primo viaggio sarà in Israele e in Palestina. Per parlare alla gente, per passare qualche messaggio e, soprattutto, per ascoltare. La nostra responsabilità è di andare a vedere se, come sembra, ci sono margini perché l’Europa eserciti un ruolo. Ce lo chiedono i cittadini europei che, a un certo punto, potrebbero provare un senso di frustrazione per il fatto che un’intera generazione - la mia, ha cominciato a fare politica a 16 anni e già si parlava di questo - è cresciuta mentre la questione israelo-palestinese restava irrisolta».
Perché adesso?
«Perché molte incognite coabitano. Il processo di pace nel Medio Oriente è un capitolo che oltrepassa la questione israeliano-palestinese. Dalla Siria alla Libia dobbiamo unire tutti i puntini se vogliamo avere l’immagine completa. Noi europei possiamo giocare un ruolo, lavorando in modo integrato con gli Stati Uniti».
Ci sarà un riconoscimento nel corso del suo mandato?
«Mettiamola così. Bisogna guardare alla luna, non al dito. Il riconoscimento è il dito. La luna è lo Stato palestinese, l’elemento più importante. Trovo che il nodo più interessante è se riusciremo ad avere uno Stato palestinese nei miei cinque anni di mandato».
Da cosa dipende?
«È un problema di volontà politica e leadership interna, in Israele e in Palestina. Dopo i fatti di Gaza, il desiderio della gente è che non si vada avanti così per vent’anni. Anche perché, in assenza di rappacificazione, avremo una Gaza dopo l’altra. C’è una consapevolezza che rappresenta una finestra di opportunità».
Lei rappresenta una politica estera europea che le capitali non hanno mai dimostrato di volere. Sempre ottimista?
«Sembrerà naif, ma siamo nell’Unione perché abbiamo scelto di essere una cosa sola in molti aspetti. Abbiamo valori comuni, anche se preferisco soffermarmi sugli interessi comuni, l’Ucraina come l’immigrazione. Viene sempre il tempo in cui tocca affrontare le conseguenze di quello che non abbiamo riconosciuto essere un interesse comune. Meglio farlo in partenza. Magari non è l’ideale per la comunicazione interna negli Stati, ma alla fine costa meno. La sfida è renderlo conveniente anche in termini di dialettica interna. E lo si può fare se, alla fine, abbiamo il coraggio di lavorare tutti insieme e dire tutta la verità ai nostri cittadini».