Corriere della Sera, 4 novembre 2014
Il ritorno all’acciaio di Stato. La scelta di Renzi su Terni (Thyssen), Taranto (Ilva) e Piombino (Lucchini). L’idea è quella di un intervento della Cassa depositi e prestiti per vigilare sui compratori esteri. «Ma se queste tre importantissime aziende dovessero chiudere o sfoltire drasticamente gli organici creerebbero un "effetto ruggine". Si presterebbero a scrivere un racconto di deindustrializzazione»
Matteo Renzi si trova di fronte a un rebus di politica industriale. Mentre cerca con qualche fatica di riavviare il processo di privatizzazione degli asset pubblici deve o no passare alla storia come il premier che ha dato semaforo verde alla ristatalizzazione della siderurgia?
È evidente come in questa fase della crisi industriale le attenzioni siano tutte concentrate sulle situazioni a rischio di Terni (Thyssen), Taranto (Ilva) e Piombino (Lucchini), tre casi di aziende importantissime per i relativi territori e che se dovessero chiudere o sfoltire drasticamente gli organici creerebbero un «effetto ruggine». Si presterebbero a scrivere un racconto di deindustrializzazione che complicherebbe i piani del premier in quest’autunno complicato.
Per quanto riguarda Terni la richiesta di un intervento della Cassa depositi e prestiti (Cdp) è venuta nei giorni scorsi da una deputata di Scelta civica, Adriana Galgano, che ha parlato anche della creazione di una public company. Non è però questa la soluzione prioritaria sul tavolo di Renzi che confida nelle novità che potrebbero venire da Bruxelles, se la Ue riprendesse in considerazione il verdetto dell’Antitrust che aveva bocciato la precedente vendita da Thyssen ai finlandesi di Outukumpu.
La decisione chiave riguarda dunque Taranto. Per entrare nel capitale dell’Ilva sono in campo, almeno informalmente, due ipotesi: la prima fa capo al colosso indiano ArcelorMittal e la seconda al gruppo italiano Arvedi in alleanza con i brasiliani di Csn. La siderurgia europea è affetta in questo momento da sovracapacità produttiva e tutte le mosse dei grandi player vanno lette (anche) in quest’ottica. Mittal potrebbe in linea teorica insediarsi a Taranto per evitare che vada in mano ai concorrenti ma di pari passo potrebbe anche agire cinicamente e ridimensionarlo. Il gruppo del resto possiede altri due impianti analoghi in Europa, in Francia e in Romania, anche se entrambi non si fanno preferire a Taranto quanto ad efficienza e tecnologia.
Accanto a Mittal dovrebbe sbarcare in Puglia come alleato anche il gruppo Marcegaglia ma il suo impegno quantitativo non è considerato sufficiente per presidiare gli interessi nazionali. Da qui l’idea che la Cdp possa prendere una quota azionaria a termine per garantire il sistema Italia ovvero che Mittal non ridimensioni Taranto e completi il risanamento ambientale. L’ipotesi di un intervento della Cassa in teoria vale anche per l’ipotesi Arvedi ma questa seconda cordata nell’entourage di Renzi si presta a un maggiore scetticismo vuoi per l’indebitamento del gruppo Arvedi vuoi per il profilo dei brasiliani che non sembrano essere un soggetto dalle spalle così forti quanto Mittal.
È chiaro che così configurato l’intervento dello Stato in Ilva assomiglierebbe a una sorta di golden share ma segnerebbe anche un secco ritorno al passato. Non va dimenticato poi che lo statuto della Cdp le vieta (opportunamente) di prendere quote azionarie in società che siano in perdita. E lo stesso vale per il Fondo strategico italiano.
L’altro dossier siderurgico caldo è quello che riguarda la ex Lucchini di Piombino. Esiste una candidatura anche in questa caso indiana da parte del gruppo Jindal, un player considerato più che affidabile, molto vicino alla nuova guida politica di New Delhi. Jindal avrebbe intenzione di entrare a Piombino da solo senza bisogna di aggregare una cordata ma il piano industriale prevederebbe comunque un downsizing dello stabilimento che rinuncerebbe all’altoforno e opterebbe sui forni elettrici con forti riflessi negativi sull’occupazione.
Che fare allora? Anche in questo caso nelle valutazioni del governo c’è la possibilità di un intervento della Cdp per un periodo limitato (forse due anni) per garantirsi che Jindal faccia davvero gli investimenti necessari. Saremmo di fronte per la seconda volta a un’operazione stile golden share non finalizzata a condizionare la governance societaria ma solo a vigilare sull’esecuzione degli impegni presi dai compratori. Il rebus, quindi, si presenta per Renzi tutt’altro facile da risolvere e i prossimi giorni saranno spesi in consultazioni e approfondimenti tecnici. I sindacati apprezzerebbero sicuramente la svolta ma tante volte in passato operazioni di intervento statale che si presumevano a termine alla fine si sono rivelate strutturali.