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 2014  novembre 03 Lunedì calendario

«Il crollo del prezzo del petrolio? Non c’è nessuna santa alleanza, è solo l’effetto del mercato». L’analisi dell’esperto Yergin: «Usa e Arabia non c’entrano con il calo del greggio, pesa l’effetto shale. Ma sotto i 75 dollari produrlo non sarà redditizio»

«Le teorie che hanno al centro una cospirazione sono molto affascinanti, lo so, ma devo deluderla: dietro il calo dei prezzi del petrolio di questi mesi non c’è una congiura di americani e sauditi ma semplicemente la forza del mercato: l’offerta è cresciuta molto mentre la domanda ristagna a causa della recessione europea e, soprattutto, del rallentamento delle economie asiatiche, Cina in testa, che erano considerate fin qui l’unico possibile motore dell’aumento dei consumi».
Daniel Yergin, il «guru» dell’industria petrolifera mondiale, non si tira indietro quando si tratta di ragionare sulle conseguenze geopolitiche di quello che sta avvenendo. Anche se non lo cita, sa bene che Tom Friedman ha fatto discutere con un articolo (pubblicato due settimane fa dal New York Times ) nel quale parla di «coincidenza di interessi se non di alleanza deliberata» tra Stati Uniti e Arabia Saudita che hanno un interesse comune a tenere sotto pressione la Russia di Putin, la cui economia è largamente basata sull’export di energia, e anche il regime di Teheran.
Yergin ammette che per i sauditi è importante indebolire gli ayatollah sciiti, loro avversari storici, e avverte che Mosca avrà presto problemi molto seri. Maggiore storico mondiale del petrolio (i suoi The Prize e The Quest sono ormai dei classici della saggistica), anche Yergin ama disegnare scenari. Ma da ascoltato esperto del mercato dell’energia sta attento a tenere i piedi ben piantati per terra: «Anche se volesse, Obama non potrebbe incidere sui prezzi dell’energia: l’impennata della produzione Usa è il risultato del lavoro di una moltitudine di produttori indipendenti». Che operano in Stati – dal Texas al North Dakota – sui quali l’influenza della Casa Bianca è limitatissima.
In passato, però, l’Arabia Saudita ha funzionato da cuscinetto, riducendo la produzione quando l’aumento di quella altrui faceva calare i prezzi. Stavolta no. Non è singolare?
«La scelta di non manipolare i prezzi tagliando artificiosamente la produzione non mi pare possa essere definita una congiura. E, comunque, stavolta il peso dei sauditi è limitato. La verità è che ci sono vari fattori che spingono in giù i prezzi che, infatti, sono calati del 20-25 per cento in poche settimane. In primo luogo la produzione Usa. C’era molto scetticismo, soprattutto in Europa, ma la rivoluzione americana dello shale gas e del petrolio recuperato col fracking è una realtà: dal 2008 ad oggi l’estrazione Usa di greggio è cresciuta dell’80 per cento. Parliamo di quasi 4 milioni di barili al giorno. Poi c’è il Canada che, tra sabbie bituminose e altro, ha aggiunto un altro milione di barili alla sua produzione. Ci sono tensioni e aree in cui la produzione cala per conflitti locali è vero, ma sempre più spesso questi scontri non incidono sull’estrazione. L’Isis vende petrolio e quello che sta accadendo in Libia ha preso in contropiede gli analisti».
In che senso?
«Si dava per scontato che un Paese dilaniato dalla guerra civile fosse paralizzato. E invece le fazioni hanno bisogno dei proventi del greggio: così la produzione è quadruplicata in pochi mesi, da 200 a 800 mila barili al giorno. Non è moltissimo, ma ha fatto la differenza in molti mercati. Ad esempio Nigeria e Angola, che producono un greggio molto simile e che avevano già perso il mercato Usa, ora non riescono più ad esportare nemmeno in Europa. Anche questo fa calare i prezzi».
Le cose potrebbero cambiare se un’altra guerra civile bloccasse qualche altro Paese produttore?
«È estremamente improbabile perché, mentre l’offerta sale, il rallentamento delle economie sta facendo calare la domanda. C’è la crisi dell’Europa, c’è l’effetto della diffusione delle tecnologie che fanno risparmiare energia, a cominciare da quelle dell’auto, ma c’è soprattutto la frenata dell’Asia. La sto chiamando da Singapore: qui tutti si chiedono cosa stia veramente accadendo all’economia cinese. La sensazione è che il suo rallentamento sia molto superiore a quello che traspare dalle statistiche ufficiali. Alla fine il problema di fondo è che i Paesi non Opec hanno aumentato l’offerta di 1,7 milioni di barili al giorno mentre la domanda, nella migliore delle ipotesi, è cresciuta di 900 mila barili. E per il 2015 si delinea uno scenario simile: produzione in ulteriore crescita perché arrivano a maturazione gli investimenti fatti negli anni scorsi, mentre nessuno prevede impennate della domanda. Se poi l’economia rallenterà ulteriormente, come temono molti, i prezzi caleranno ancora di più».
Beh, più soldi da spendere nelle tasche dei consumatori. E il calo dei prezzi prima o poi dovrebbe frenare la produzione.
«Sì, è vero: con prezzi inferiori ai 75 dollari buona parte della produzione di shale gas smette di essere redditizia. Lo stesso vale per le sabbie bituminose del Canada. Ma chi ha ormai creato capacità produttiva, la sfrutta. Caleranno, invece, in questo caso, gli investimenti su nuovi pozzi. Insomma l’impatto ci sarà, ma lo vedremo solo nel lungo periodo».
A parlare di congiura sono soprattutto i russi. Ricordano che l’Unione Sovietica, alla fine degli anni 80 del secolo scorso, crollò anche per un repentino calo dei prezzi dell’energia.
«Come sa ho studiato quel fenomeno e ne ho scritto molto. Anche allora, convenienze politiche a parte, fu decisivo il mercato a causa di un’enorme sovrapproduzione che nel 1986 fece precipitare i prezzi. Quello fu un fenomeno di portata molto più ampia, scendemmo addirittura a 10 dollari al barile: nulla di paragonabile con quello che sta accadendo oggi».