Corriere Economia, 3 novembre 2014
Il petrolio sotto quota 90 mette nei guai i big del settore. Così il barile super scontato mette a rischio i flussi di cassa e i dividendi. La reazione di Eni & Co: possibili tagli agli investimenti, cessioni per ridurre il debito
Si calcola che un calo di 10 dollari del prezzo del barile trasferisca all’incirca mezzo punto del Pil mondiale dai Paesi produttori ai Paesi consumatori. Ma di certo il brusco calo del petrolio dai massimi dello scorso giugno, da 115 a 85-87 dollari, non è una buona notizia per le compagnie petrolifere come l’Eni. Come per tutti gli attori del sistema petrolifero si tratta di un problema di «breakeven», cioè di equilibrio tra entrate e uscite, tra i ricavi dalla vendita di petrolio e gli impegni sottoscritti, soprattutto quelli con gli azionisti.
Valori di equilibrio
Se il prezzo del barile sta sopra quella soglia di «neutralità» tutto procede per il meglio. Se scende possono invece esserci dei problemi. Nel caso dei petro-Stati come quelli Opec, il rischio (estremo) è di sforare il budget interno e non riuscire a pagare i sussidi, le pensioni o gli stipendi della pubblica amministrazione, prospettiva preoccupante in tempi di primavere arabe e estremismo islamico. Su questo fronte ci sono Paesi che possono stare relativamente tranquilli come Kuwait e Qatar (54 dollari il prezzo di equilibrio s+econdo le stime Fmi) ed altri che devono iniziare a preoccuparsi: in misura minore gli Emirati (80 dollari) e un po’ di più la regina dell’Opec, l’Arabia Saudita (97 dollari). Anche la Russia (100 dollari di «breakeven price») rientra nel novero di coloro che non possono dormire sonni tranquilli, visto che i proventi dall’energia coprono circa metà del bilancio statale. Per non parlare, poi, di Venezuela e Nigeria che hanno un punto di equilibrio fiscale intorno a 120 dollari al barile.
Quota 98 dollari
Ma un discorso analogo si applica alle compagnie petrolifere, che fanno conto su un certo livello di prezzo per coprire operatività e impegni finanziari. Il calcolo che è stato fatto dalla società specializzata Wood MacKenzie (vedi grafico a fianco) dà risultati interessanti. Due terzi delle cosiddette Ioc, le «international oil companies», sono in grado di coprire investimenti e spese produttive, spese per l’esplorazione, dividendi e programmi di «buy back» dei propri titoli solamente con un barile sopra quota 90 dollari. E l’Eni di Claudio Descalzi, curiosamente, si trova allo stesso livello dell’Arabia Saudita, più o meno intorno a 98 dollari.
Un livello non disprezzabile se confrontato con quello di altre compagnie: su un gradino più pericoloso si trovano Repsol e Total (110 dollari), mentre in posizione più vantaggiosa compaiono colossi del calibro di Exxon e Bp (intorno a 90 dollari), con Shell (70) e Lukoil (poco più di 60 dollari) tra i più virtuosi. Se si dà poi retta alle stime elaborate da Goldman Sachs, il prezzo di equilibrio per il sistema delle compagnie petrolifere è destinato a salire nel 2015: fino a 122 dollari per la media dei grandi gruppi occidentali; fino a 118 dollari per l’Eni; a 125 per Bp, Repsol e Statoil; a 108 per Shell; a 148 per Total.
Se questa è la tendenza pare evidente che le compagnie dovranno in qualche modo correre ai ripari, attrezzandosi per affrontare un periodo non breve di petrolio a buon mercato. Quanto lungo, però, non è dato saperlo. È vero che il cartello dei produttori si riunirà a Vienna il 27 novembre per esaminare la situazione. Ma a sentire il suo segretario generale, il libico Abdallah Salem el-Badri, l’Opec non ritoccherà per tutto il prossimo anno i livelli di produzione attuali, confidando, con tutta probabilità, che le riduzioni riguardino principalmente il «tight oil» americano, il petrolio «non-convenzionale» che potrebbe essere fuori mercato intorno ai 70 dollari al barile.
Flussi di cassa
Ma che farà l’Eni, che proprio pochi giorni fa ha registrato un record quinquennale di cash flow a quota 4 miliardi di euro in un solo trimestre? L’accento sulla «generazione di cassa» risponde anche a qualche esigenza di comunicazione, dopo le settimane passate sulla graticola dello scandalo nigeriano del blocco Opl245. Ma qualche aggiustamento andrà comunque fatto, sulla linea dell’ «ottimizzazione» propugnata da Descalzi dal suo insediamento. L’obiettivo principale promesso a investitori e soci rimarrà quello di pagare i dividendi, che l’Eni ha storicamente mantenuto a un livello (6% il rapporto sul prezzo per azione) superiore a quello dei concorrenti (4%). Diversamente ne soffrirebbe la reputazione internazionale. Come si potrà fare, allora, con il barile a 80 dollari? Da Metanopoli si sostiene che la «generazione di cassa» proseguirà a livelli elevati anche nel trimestre in corso. C’è da crederci, visto che una fetta di rilievo dei flussi si deve ai risparmi ottenuti con il miglioramento dei settori raffinazione e petrolchimica (i cui margini beneficeranno della discesa del prezzo del barile) e agli effetti della revisione dei contratti «take or pay» di gas. L’Eni, negli anni scorsi, ha anticipato cassa senza ritirare gas dai fornitori, accumulando così un «tesoretto» di 1,9 miliardi. Anche quello, però, non durerà in eterno.
Meno investimenti
Un’altra strada per conservare il cash flow potrebbe essere quella di «razionalizzare» gli investimenti, e infatti nelle previsioni per fine anno il gruppo ha anticipato una loro riduzione rispetto ai 12,8 miliardi spesi nel 2013. Il taglio degli investimenti, per una «oil company», è però una via rischiosa, che rischia di compromettere il tasso di sostituzione delle riserve.
Di nuovo, quindi,come fare? L’altra gamba che l’Eni ha scelto è quella della dismissione di quote nei giacimenti in cui è presente. Il che significa che oltre il 30-35% di proprietà si vende a altre compagnie, riducendo rischi e costi eccessivi.
Va detto che da qualche tempo a questa parte la sorte arride ai geologi e agli ingegneri del Cane a sei zampe. Dalla maxi-scoperta in Mozambico di qualche anno fa il «track record» di ritrovamenti è decisamente sopra la media del settore. A Metanopoli hanno trovato gli algoritmi giusti per perforare con successo? Anche qui però, con il barile a 80 dollari, si può nascondere qualche intoppo. Difficile trovare nei tempi necessari, scrive Andrea Scauri di Mediobanca Securities, acquirenti per i 6 miliardi che mancano per centrare l’obiettivo di 11 miliardi di vendite promesso al mercato.
Cessioni
Il rebus cash flow, insomma, non è di facile soluzione. Una mano la potrebbe dare l’uscita da Saipem, che secondo le nuove voci di mercato potrebbe avvenire con un aumento di capitale riservato a un investitore oppure con una cessione di metà della quota del 44% e un aumento di capitale successivo. Il gruppo di Descalzi deconsoliderebbe subito 5 miliardi di debito netto sui 16 miliardi attuali. E con più di 20 miliardi di euro di margini industriali anche il mini-barile farebbe molta meno paura.