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 2014  novembre 03 Lunedì calendario

Far tornare il Colosseo, l’arena che è stato. L’idea dell’archeologo Daniele Manacorda è così geniale che verrà bocciata

Finalmente un archeologo onesto. Visto l’immediato e istintivo entusiasmo del ministro Franceschini, gli proporrei di far presiedere il Consiglio nazionale dei beni culturali a Daniele Manacorda, sostituendolo a quel Giuliano Volpe, in quota Vendola, trombato al Senato e ricompensato con la nomina a capo di un organismo, che più tecnico non potrebbe essere, dopo Settis e Carandini. E infatti gli ha suggerito la soluzione politica del caso dei Bronzi di Riace.
C’è da scommettere che molti archeologici archeologhi dei miei stivali tenteranno di raffreddare l’entusiasmo di Franceschini, bocciando la proposta di Manacorda. E proprio perché appare semplice, logica, coerente.
Cosa ha scandalosamente proposto Manacorda?
Di far tornare il Colosseo l’arena che è stato, e non un oggetto per le masturbazioni degli archeologi. Infatti, con i loro vibratori, dopo il costruttivo intervento del Valadier, e più tardi di Gaspare Salvi e Luigi Canina, gli scavatori degli anni Trenta del ’900, alla ricerca di chissà quali costruzioni, hanno operato sul Colosseo come su un cadavere, facendo un’autopsia, con morbosa curiosità per gli organi e le interiora da studiare, tra la rassegnazione e l’euforia di chi ha di fronte un organismo morto.
Così, in ogni fotografia dall’alto, abbiamo visto il Colosseo con incomprensibili strutture in vista che dovevano essere coperte, come aree di servizio per il «palcoscenico», un’area ellittica di 86x54 metri, con una pavimentazione in parte in muratura, in parte in tavolato di legno, che veniva ricoperta di sabbia, per i ludi gladiatori. Sotto l’arena vi erano gli ambienti di servizio, con un ampio passaggio centrale lungo l’asse maggiore, e 12 corridoi curvilinei disposti simmetricamente su due lati. Qui erano i montacarichi che consentivano di far salire sull’arena i macchinari o gli animali per i ludi. In realtà questi ambienti corrispondono al rifacimento del III-IV secolo. E occorre andare all’anfiteatro di Pozzuoli, concepito dagli stessi architetti del Colosseo, per capire come fossero, in epoca romana, i sotterranei originali: a Pozzuoli sono ancora visibili gli ingranaggi utilizzati dai Romani per sollevare le gabbie con le belve feroci. Lo spazio interno del Colosseo appare ora come un groviera, con tunnel sotterranei, buchi, in un incomprensibile labirinto, adatto a una visione di rovina come le macerie dopo un bombardamento in un quadro di Mafai. 
Ora Manacorda dice: ciò che era sotterraneo torni a stare sotto, ricostituendo il piano di calpestio che restituisce l’arena alle sue potenziali funzioni e al suo aspetto originale. Naturalmente le sottostrutture potranno essere percorribili e visitate.
C’è qualcosa di così semplice e logico nelle considerazioni e nella proposta di Manacorda che sono certo non si realizzerà, nonostante lo slancio da neofita di Franceschini. È la ragione per la quale a Selinunte, come in un qualsiasi altro sito archeologico, non si rimettono più in piedi le colonne dei Templi nonostante ve ne siano tutti i rocchi. Come è stato fatto con il Partenone e con il Tempio di Zeus a Cirene.
La ragione, secondo gli archeologi moderni, è che la rovina di un tempio è una parte essenziale della sua storia, e che la ricostruzione è un fatto turistico, edonistico, spettacolare, e, perché no, capitalistico. È sufficiente immaginarla. Tra reale e virtuale non c’è alcuna differenza, nella loro onanistica visione.
Ovviamente lo stesso si può dire del Colosseo, anche riconoscendo la sensatezza delle osservazioni di Manacorda: «Le vedute ottocentesche ritraggono il Colosseo con la sua bella arena viva perché calpestabile, e quindi privatamente o pubblicamente usabile e usata. Tra il XIX e il XX secolo, l’arena è stata scoperchiata, l’invaso del monumento è stato scavato attraverso una complicata sequela di vicende, i suoi sotterranei sono stati messi a nudo: un’infinità di dati archeologici sono andati perduti, ma tanti altri dati sono stati raccolti, sicché oggi i sotterranei del Colosseo sono una fonte inesaurita di racconti. Per definizione un sotterraneo è qualcosa che sta “sotto terra”. Perché i sotterranei del Colosseo stanno a pancia all’aria sotto il sole e non sono tornati là dove dovevano stare? O meglio: perché non è tornata su di loro quella coltre necessaria e antica dell’arena, appunto, che oltre a dar loro la dovuta protezione, gli avrebbe dato anche quel che adesso gli manca, cioè un senso? Al Colosseo, nel secolo appena, trascorso, qualcuno ha ritenuto di dover togliere la sua arena, cioè il suo vestito, magari un po’ lacero, che gli consentiva però di mostrarsi al mondo con dignità. La restituzione dell’Arena gli permetterebbe di tornare a essere, carico di anni, un luogo che accoglie non il semplice rito banalizzante della visita del turismo massificato, ma un luogo che, nella sua cornice unica al mondo, ospita - nelle forme tecnicamente compatibili - ogni possibile evento della vita contemporanea».
Riflessioni sensatissime che, dopo l’intervento di Franceschini, potrebbero tradursi in realtà e consentire che il Colosseo, non diversamente dall’Arena di Verona, sulla quale la consuetudine ha prevalso sul sadismo archeologico, potesse tornare a essere teatro di spettacoli e rappresentazioni, come avviene anche in Egitto. Ma questa sola prospettiva farà gridare le archeologiche capre, all’indirizzo di Manacorda: «Dalli all’untore!».