Il Giornale, 3 novembre 2014
Tags : Thyssen
Se i 500 operai della Thyssen valgono più dei 16mila dell’Ilva. Quando la giustizia distrugge un patrimonio del Paese
L’Italia è ancora il secondo produttore europeo di acciaio, dopo la Germania. Con il 15 per cento del totale, produciamo più billette e prodotti piani di francesi (che hanno il nucleare e un prezzo dell’energia ridicolo), spagnoli e inglesi. È un mestiere che prima i bresciani con i forni elettrici e poi i Riva con gli altiforni sanno fare. Il caso degli acciai speciali di Terni (due forni elettrici) che i tedeschi della Thyssen vogliono mollare, parte da lontano, ma riguarda, in sostanza, cinquecento operai (con tutto il rispetto per ognuno di loro). Pensate cosa avverrebbe se dovesse saltare l’Ilva di Taranto (portandosi dunque appresso gli stabilimenti di Genova e Novi): 16mila dipendenti a spasso. Altro che quattro feriti in piazza davanti all’ambasciata tedesca.
Sia nel primo caso, sia nel secondo ci sono precise responsabilità. E non riguardano i proprietari di questi impianti, non sono affare dei padroni (che possono aver commesso degli sbagli), ma di quello che i professoroni chiamano «sistema Paese» e che poi non si capisce mai cosa sia. Ve lo spieghiamo noi. Sistema Paese (che non funziona) è quel Paese in cui l’amministratore delegato della Thyssen viene condannato a 16 anni per omicidio volontario e dopo sette anni non conosce ancora il prezzo finale della sua pena. In uno dei suoi impianti, la linea numero 5, sono tragicamente morti sette operai. E uno di loro si è salvato per miracolo. Negligenza della Thyssen. Il processo, dopo vari gradi, è ancora in corso. In primo grado un tribunale italiano ha condannato il massimo responsabile di quell’industria come se avesse volontariamente ucciso i suoi sette operai. Qualunque impresa, anche micro, ha centinaia di controlli, ma evidentemente non lo stabilimento Thyssen di Torino, dove è avvenuto il fattaccio. Quando poi la tragedia avviene, si condanna con il manganello il boss tedesco dell’impresa. E si rettifica in appello. Non stupiamoci quindi se i vertici tedeschi dichiarano, più o meno: in Italia non si può investire. Indovina, indovinello: se la Thyssen deve chiudere uno dei suoi stabilimenti europei, quale Paese sceglie? Nessuno dice di lasciare impunite le malefatte delle multinazionali, ma converrebbe avere un po’ di certezza del diritto e non sparare sentenze clamorose e di piazza.
L’Ilva di Taranto è un altro tragico caso di scuola. Un malinteso senso di giustizia (che vale solo in un senso, quello dell’accusa) sta distruggendo un patrimonio del Paese. Gli altiforni di Taranto sono stati espropriati alla famiglia Riva sulla base di accuse durissime (disastro ambientale) che sono tutte ancora da dimostrare. La prima udienza è arrivata un mesetto fa, dopo più di due anni di caos giudiziario. Il patron della famiglia è morto, l’azienda è stata commissariata e, secondo un bel reportage di Paolo Bricco, dagli arresti a oggi i vari commissari hanno bruciato 2,5 miliardi di patrimonio netto. Hanno messo in ginocchio l’acciaio italiano. Con un accanimento da Far West, dove però i soprusi arrivano dagli sceriffi.
L’Eurostat, non Babbo Natale, ha calcolato che i tedeschi dal 2003 al 2010 hanno fatto investimenti ambientali nelle loro industrie siderurgiche per circa 450 milioni. L’Italia per circa un miliardo, e dunque la quota Ilva di Taranto (che rappresenta il 55% della nostra industria) ha investito nei sette anni della gestione Riva più di quanto abbiano fatto tutte le industrie tedesche. La questione sociale dell’Ilva è lì lì per scoppiare. Su questa Zuppa lo scriviamo da più di un anno. Intanto il tempo passa e l’azienda va a catafascio. Le imprese non si gestiscono con i commissari (grazie al cielo Bondi ha lasciato il passo al più serio Gnudi).
L’Ilva è sull’orlo del collasso finanziario e quando domani vedremo i suoi operai in piazza non potremo girarci dall’altra parte: dovremo dire loro con chi prendersela. E non sono i Riva. Il governo ha deciso di mettere in campo la Cassa depositi e prestiti, si tratta di una nazionalizzazione bella e buona. È pur sempre meglio dell’offerta degli indiani: spregiudicati nel comprare a debito e a prezzi da saldo e poi nel fare lo spezzatino. Ma l’aver sventato un rischio (quello indiano, appunto) e aver individuato una possibile via d’uscita (la Cdp con Arvedi, che di acciaio se ne intende) non toglie che il legittimo proprietario esista e si chiama Riva. Tanto per intenderci, i suoi affari, fuori dal perimetro dell’Ilva e dunque delle inchieste tarantine, vanno a gonfie vele. I suoi Forni Elettrici (non ha diversificato in pizzi e merletti) fatturano circa 4 miliardi di euro, fanno utili e non hanno indebitamento rilevante. Sono degli imprenditori modello? Non lo sappiamo. Ma non c’è alcuna sentenza, nemmeno di primo grado, che dica il contrario. E la loro gestione economica dell’Ilva di Taranto, e ora della Forni Elettrici, dimostra come siano tra i pochi in Europa a saper fare questo mestiere. E noi li abbiamo sputtanati e buttati a mare. Ne pagheremo le conseguenze. E sarà inutile piangerci sopra. Era già tutto previsto...
Ps. Rincresce vedere come il mondo industriale sia stato assente dalla difesa di questa famiglia, e dunque di questa industria strategica per il Paese. E solo ora stia dando qualche cenno di vita. A parte la solitaria battaglia del numero uno di Federacciai (Antonio Gozzi si è battuto come un leone per fare emergere le ragioni dell’impresa) e dell’attuale numero uno di Assolombarda (Gianfelice Rocca), il resto del mondo confindustriale si è girato dall’altra parte. Si è vergognato dei Riva. In fondo, pensavano, potevano essere un po’ più puliti. O un po’ più confindustriali.